Esposizione
completa della teoria delle invarianti
Per comodità dei lettori esporrò qui di
seguito la teoria delle invarianti individuate da chi sta scrivendo e subito
dopo si troverà la teoria di quelle individuate primariamente da Bruno Zevi.
ALCUNE
NOTE ILLUSTRATIVE SU UN TENTATIVO DI SPOSTARE UNA MANIERA DI PENSARE
L'ARCHITETTURA VERSO LA LOGICA. franz falanga
PREMESSA
Fra tutte le esperienze didattiche nelle facoltà di Architettura
italiane circa la possibilità di impostare un metodo (o vari metodi) di
progettazione, una delle proposizioni più radicate e più estese è quella che
ritiene possibile il poter insegnare tutto o quasi tutto, tranne la
progettazione medesima. Ricercare il perché di questo modo di pensare così
comune (che in qualche caso ha rappresentato un alibi nella cultura della
didattica architettonica italiana) non è negli intendimenti specifici di questa
memoria. Giova qui ricordare brevemente che, mentre sulla suddetta presunta
impossibilità si sono versati fiumi di inchiostro, spesso, inspiegabilmente,
argomentazioni di segno diverso hanno segnato il passo.
Non parlerò qui degli architetti che hanno fondato la propria poetica
sulla forza senza limiti della ragione; il desiderio di partire dalla
utilizzazione corretta e, sopra ogni cosa, logica di quanto è stato fatto
finora e si continuerà a fare nell'Architettura, ecco, questa è la base di
partenza delle considerazioni e delle proposte che seguiranno.
CONSIDERAZIONI
INIZIALI
Si parte da due dati di fatto:
A) L'esistenza sulla faccia della terra di
una miriade di oggetti concepiti e costruiti dall'uomo, molti dei quali
saldamente «ancorati» al terreno e perciò difficilmente spostabili sopra il
tavolo da disegno dell'architetto o dello studente architetto.
B) Un numero enorme di pubblicazioni
sull'Architettura comprendenti disegni, fotografie ed una quantità immensa di
parole organizzate tra loro molto variamente.
Quindi, due universi artificiali:
1) L'Architettura costruita
2) L'Architettura disegnata e/o scritta o
storia della medesima
ENUNCIAZIONE
DEL PROBLEMA
Mi chiedo:
come è possibile, se è possibile, utilizzando
codesti due universi, impostare un metodo per cominciare a:
1) “parlare Architettura”?
2) “parlare “di” Architettura”?
IMPOSTAZIONE
DEL PROBLEMA
Si consideri dunque che, al di fuori del tempo e di qualsivoglia
temperie culturale, l'architetto, pur sottostando a condizionamenti diversi e
pur trovandosi in continua evoluzione, in alcuni particolari passaggi del suo
iter progettuale si è sempre trovato di fronte a certe situazioni che
nel tempo non sono mai cambiate.
Mi spiego meglio: la progettazione di un oggetto qualunque (non
interessano le dimensioni) è paragonabile ad un'articolata organizzazione di
materiali e forme.
Bene, all'interno di codesta organizzazione, comunque complessa, vi sono
dei momenti molto particolari della progettazione che sono rimasti invariati nel tempo e
che si elencano qui di seguito:
1) Unione di materiali diversi aventi stessa
direzione e verso differente.
2) Mutamenti di direzione di due materiali
diversi.
3) Mutamenti di direzione di un solo
materiale.
4) Termine di un materiale qualunque.
5) Trattamento dei vuoti con lo stesso
materiale ai bordi.
A questo punto abbiamo sul tavolo due insiemi
di materiali e cioè:
A) Una organizzazione comunque complessa
B) Le cinque situazioni invariate nel tempo
Consideriamo adesso la organizzazione
comunque complessa di cui sopra come un insieme e le situazioni
invariate nel tempo come alcuni degli elementi dell'insieme.
Nel medesimo istante in cui abbiamo inaugurato due termini appartenenti
al linguaggio matematico e cioè insieme ed elementi dell'insieme,
il trasferimento del problema da un'area concettuale ad un'area appartenente
alla logica matematica appare inevitabile. Va subito detto che il
termine inevitabile è stato usato alla luce delle seguenti
considerazioni:
1a considerazione: «Se un argomento qualsiasi
viene presentato in maniera tale che esso consista di simboli e di precise
regole di operazioni su questi simboli, le quali siano soggette soltanto alla
condizione di presentare una coerenza interna, tale argomento fa parte della
matematica». C. Boyer quando mostra questo concetto importante espresso nella
«The Mathematical Analysis of Logic» di George Boole (1847).
2a considerazione: «La matematica può essere
paragonata ad un mulino di squisita fattura che macina materiali di qualsiasi
grado di finezza; ma, nondimeno, ciò che se ne ricava dipende da ciò che vi si
mette dentro; e come il più grande mulino del mondo non estrarrà farina da
bucce di piselli, così pagine e pagine di formule non produrranno nessun
risultato preciso a partire da dati sconnessi». T.H. Huxley (1825-1895).
3a considerazione: Nel 1872 Georg Cantor
definisce un insieme come “L'unione in un tutto di oggetti del nostro intuito o
del nostro pensiero, ben determinati e differenziabili gli uni dagli altri”.
4a considerazione: “La matematica pura è la
classe di tutte le proposizioni aventi la forma “p implica q” dove “p” e “q”
sono proposizioni contenenti una o più variabili, le quali sono le stesse in
entrambe le proposizioni, e nè “p” nè “q” contengono alcuna costante ad
eccezione delle costanti logiche”. Bertrand Russell “Principles of Mathematics”
1903.
5a considerazione: Nella prima edizione del
1939 della “Théorie des ensembles”, Nicolas Bourbaki scrive: “Un insieme è
formato di elementi che godono di certe proprietà e che hanno certe relazioni
fra loro o con elementi di altri insiemi”.
6a considerazione: Nel 1950 N. Bourbaki in
“The Architecture of Mathematics”, American Mathematical Monthly, scrive: “Dal
punto di vista assiomatico, la matematica si presenta così come un deposito di
forme astratte: le strutture matematiche; ed accade così, senza che ne sappiamo
il perché, che certi aspetti della realtà empirica si adattino a queste forme,
quasi in virtù di una sorta di predisposizione».
7a considerazione: Nel 1950 Andrè Weil in
“The future of Mathematics”, American Mathematical Monthly, scrive: “È
attraverso inattesi accostamenti... che il matematico del futuro
imposterà in maniera nuova e risolverà i problemi che gli avremo lasciato in
eredità».
NUOVA
IMPOSTAZIONE
Adattiamo ora i termini empirici del nostro
problema alle strutture matematiche, tenendo presente:
1) che αxβ si legge “hanno la stessa direzione e verso
differente”
2) che α,β
si legge “hanno direzioni diverse ma versi
congruenti in P”
3) che α
si legge “cambia direzione”
4) che α > si legge “termina
comunque”
5) che α > <α si legge “quando ai bordi c'è lo stesso
materiale”
6) che α Є A si legge “l'elemento α appartiene
all'insieme A”
7) che B
A si
legge “B un sottoinsieme di A”
8) che α ∩ β si legge “ α e β sono uniti fra loro ”
9) che w. si legge “when” = quando
10) che ¿P si legge “QUANTE E QUALI SOLUZIONI sono
state, o saranno utilizzate in P?”
CASO n. 1
Sia A un insieme eterogeneo naturale o artificiale e siano α e β due elementi dell’ insieme
(1) α Є A
β
Є A
Vi sia, inoltre, la condizione necessaria e
sufficiente che α e β siano, comunque, in qualunque rapporto fra loro in una
zona/punto di passaggio detto P
(2) P = α ∩ β
= β ∩ α
Vi sia, ancora, la condizione necessaria e
sufficiente che nel suddetto rapporto/punto di passaggio fra α e β sia necessariamente utilizzata una soluzione
qualunque, purché utile al rapporto diretto fra α e β. Orbene
(3) w. α ≠ β
e quando
α e β hanno la stessa direzione ma verso differente
e cioè
(4) w. Αxβ
QUANTE E QUALI SOLUZIONI sono state, o
saranno, utilizzate in P?
e cioè
(5) ¿P
CASO n.
2
Sia A un insieme eterogeneo naturale o artificiale e siano α e β due elementi dell’insieme
(1) α Є A
β
Є A
Vi sia, inoltre, la condizione necessaria e
sufficiente che α e β siano, comunque, in qualunque rapporto fra loro in una
zona/punto di passaggio detto P
(2) P = α ∩ β
= β ∩ α
Vi sia, ancora, la condizione necessaria e
sufficiente che nel suddetto rapporto/punto di passaggio fra α e β sia necessariamente utilizzata una soluzione
qualunque purchè utile al rapporto diretto fra α e β .
Orbene
(3)
w. α ≠ β
e quando α e β hanno direzioni diverse ma versi congruenti in P
e quando α e β hanno direzioni diverse ma versi congruenti in P
e cioè
(4) w. α,β
QUANTE E QUALI SOLUZIONI sono state, o
saranno, utilizzate in P?
e cioè
(5) ¿P
CASO n. 3
Sia A un insieme eterogeneo naturale o artificiale e sia α un elemento dell’insieme
(1) α Є A
quando in una zona/punto P α cambia direzione
e cioè
(2) w. α
QUANTE E QUALI SOLUZIONI sono state, o
saranno, utilizzate in P?
e cioè
(3) ¿P
CASO n. 4
Sia A un insieme eterogeneo naturale o artificiale e sia α un elemento dell’insieme
(1) α Є A
Quando α comunque termina in una zona/punto P
(2) w. α >
QUANTE E QUALI SOLUZIONI sono state, o
saranno, utilizzate in P?
e cioè
(3) ¿P
CASO n. 5
Sia A un insieme eterogeneo naturale o artificiale e sia α un elemento dell'insieme
(1) α Є A
Vi sia ancora un sottoinsieme B omogeneo e
vuoto contenuto in A
(2) B
A
Quando B è completamente circondato da α
e cioè
(3) w. α > <α
e quando α comunque termina in una zona/punto
P
e cioè
4) w. α >
QUANTE E QUALI SOLUZIONI sono state, o
saranno, utilizzate in P?
e cioè
(5) ¿P
ANNOTAZIONI
FINALI
Per fini didattici e per un ulteriore maggiore chiarimento per chi
legge, vale la pena ricordare che le cinque situazioni che sono rimaste invariate
nel tempo possono essere così riscritte, con l’aggiunta di considerazioni
strumentali:
Studiare come è stato risolto strutturalmente
e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui due materiali diversi
sono in contatto fra loro, avendo
stessa direzione e verso differente.
Studiare come è stato risolto strutturalmente
e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui due materiali diversi
sono in contatto fra loro, avendo due
direzioni diverse e confluendo nello stesso punto.
Studiare come è stato risolto strutturalmente
e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui un unico materiale cambia direzione.
Studiare come è stato risolto strutturalmente
e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui un materiale termina.
Studiare come è stato risolto strutturalmente
e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui termina un materiale, inizia un vuoto e subito dopo il vuoto
ri-inizia lo stesso materiale.
Chiarisco meglio:
PRIMA
INVARIANTE. In che modo (sia dal punto di vista formale
che da quello strutturale) è stato risolto (nel caso dell’analisi
storica) o si deve risolvere (nel caso della progettazione) l'accoppiamento/giunzione/interfacciamento
di due materiali diversi aventi la stessa direzione e verso opposto.
SECONDA
INVARIANTE.
In che modo (sia dal punto di vista formale che da quello strutturale)
è stato risolto (nel caso dell’analisi storica) o si deve risolvere (nel caso
della progettazione) l'accoppiamento/giunzione/interfacciamento di due
materiali diversi aventi due direzioni diverse.
TERZA
INVARIANTE.
In che modo (sia dal punto di vista formale che da quello strutturale)
è stata risolta (nel caso dell’analisi storica) o si deve risolvere (nel caso
della progettazione) la variazione di direzione dello stesso materiale.
QUARTA
INVARIANTE.
In che modo (sia dal punto di vista formale che da quello strutturale)
è stato risolto (nel caso dell’analisi storica) o si deve risolvere (nel caso della
progettazione) il trattamento del materiale una volta giunti al
termine/conclusione del materiale stesso.
QUINTA
INVARIANTE.
In che modo (sia dal punto di vista formale che da quello strutturale)
è stato risolto (nel caso dell’analisi storica) o si deve risolvere (nel caso
della progettazione) il trattamento al contorno di un’apertura nello stesso
materiale
Chiarendo ulteriormente:
Nella prima invariante ci troviamo in presenza dell’unione di due materiali diversi sullo
stesso piano
Nella seconda invariante ci troviamo in presenza dell'unione di due materiali diversi non
complanari fra loro e provenienti da versi diversi. Chiamiamole per comodità
soluzioni d’angolo.
Nella terza invariante ci troviamo in presenza delle soluzioni d'angolo che utilizzano lo
stesso materiale.
Nella quarta invariante ci troviamo in presenza del come far terminare un materiale
qualsivoglia.
Nella quinta
invariante abbiamo sotto gli
occhi la soluzione delle bucature.
Insisto sul fatto che queste invarianti (cioè questi momenti particolari
della progettazione o dell’analisi del costruito) siano momenti fondamentali in
cui il progettista sempre si
è imbattuto, sempre si
imbatte e sempre si imbatterà
in tutti i campi dell’attività creativa, a qualunque latitudine e a qualunque
momento storico il progettista medesimo appartenga. A tutto ciò aggiungo che il
numero di queste invarianti può essere certamente incrementato. Sono infatti
assolutamente convinto che, approfondendo sempre più lo studio di questo
argomento, altre invarianti possano essere ulteriormente individuate, a condizione però che non contraddicano le precedenti. In questo sono d’accordo totalmente con
Bruno Zevi.
Dopo
aver elencato queste particolari invarianti, ne discende subito, conseguentemente,
la messa in discussione della maniera usata finora di fotografare i manufatti e i prodotti dell'ingegno.
Infatti, nei libri dove l'architettura e gli oggetti di design sono fotografati
in modo convenzionale, ancorchè gradevole, non essendo queste invarianti
"scientemente" individuate, avremo delle immagini fotografiche del
manufatto ovviamente carenti delle informazioni necessarie e sufficienti a una
migliore e più razionale “lettura” fotografica del manufatto stesso. Questa
generale mancanza dei particolari delle invarianti nelle foto a mio avviso toglie
buona parte dell’utilità ai libri fotografici finora pubblicati. Nel migliore
dei casi si ha un’idea di massima dei manufatti. Vero è che se avessimo i
disegni e i particolari costruttivi sapremmo dove guardare. Ma, lo ripeto, sto
parlando dei libri fotografici dedicati all’architettura e al design, sto
insomma parlando dei libri nei quali gli oggetti architettonici e gli oggetti
di design sono evidenziati e raccontati “soltanto” attraverso fotografie.
Molti di questi libri di architettura e di design sono usati stancamente per la
didattica. Penso con grande attenzione ed interesse alla grande riscoperta
dell’utilità nel campo dello studio della storia dell’architettura e del design
e, contemporaneamente, nel campo delle rispettive didattiche, al giorno in cui i nuovi
libri fotografici racconteranno per immagini questi momenti invarianti. Una
tale lettura sempre più specialistica delle discipline formali che aumenterebbe
di molto il rigore che è assolutamente necessario alla migliore comprensione
del fenomeno, salvando ovviamente tutte le altre componenti culturali e
misteriose che insistono su un progetto e su un manufatto architettonico o di
design. Invito chiunque stia leggendo queste note a prefigurarsi un libro
fotografico, per esempio sulle architetture di Gino Valle, di Ignazio Gardella,
di Giuseppe Samonà, in cui fossero evidenziate fotograficamente tutte le
invarianti di cui stiamo parlando. Il libro avrebbe ben altre suggestioni e ben
altro interesse per gli specialisti.
Avvertenza importante. Fin qui ho
utilizzato spesso il termine “forma”. Ho usato questo termine nell’accezione
più larga possibile, nel senso che la mia teoria è adattabile sia alle
soluzioni dove la forma è priva della mera utilità funzionale, vedi le forme
dell’universo creativo nel quale si muovono i cosiddetti artisti, quelli che
preferisco chiamare creativi, sia alle soluzioni dove la forma è strettamente
collegata alla propria funzione, vedi architettura, design. E’ assolutamente
ovvio che non esistono forme “senza” una loro funzione, ma mi premeva fare
questa distinzione, per ribadire che,
solo per comodità di metodo, ho preferito dividere le forme in quelle che
appartengono al campo della “utilitas”
di vitruviana memoria e a quelle che appartengono ad altri tipi di “utilitas”.
Propongo quindi, dopo aver molto schematicamente espresso la mia
personale visione del problema (della quale schematicità peraltro mi scuso), un
modo assolutamente iniziale e propedeutico dal punto di vista didattico di “osservare”
un oggetto architettonico
utilizzando un’invariante di quelle da me individuate per tentare di iniziare a
progettare una forma. Vi esporrò adesso due esercitazioni che facevo
eseguire dai miei studenti delle Accademie di belle arti di Bari e di Venezia.
Con esiti parecchio interessanti.
Per comodità di lettura chiamerò queste due proposte/esercitazioni
“Ipotesi A” e “Ipotesi B”, considerandole null’altro che un micro esempio di
ipotesi di lavoro, pur essendo assolutamente propedeutiche alla comprensione, all’analisi e, ovviamente, alla progettazione di una forma, a qualsiasi
categoria essa dovesse appartenere.
Ipotesi
A. Dopo aver esposto con ricchezza di particolari e con chiarezza
l’assunto di partenza (sto parlando delle invarianti), dico agli allievi del
corso di iniziare a fotografare alcune di queste cinque invarianti utilizzando
la città che ogni studente ha facilmente sottomano, non importa se centro
storico o quartiere residenziale o periferico. Per evitare inutili
affastellamenti prendiamo inizialmente in esame le soluzioni d’angolo dove
esiste un unico materiale (mia invariante numero 3). Avremo così in pochi
giorni un abbondante repertorio di soluzioni d’angolo di tutti i tipi e risalenti
a varie epoche. Osservando in gruppo queste fotografie con molta attenzione ci
troveremmo in presenza di un importante elenco di soluzioni di tutti i tipi
che daranno adito a prime considerazioni sui casi analizzati. Va subito detto
che dal punto di vista meramente didattico, una soluzione d’angolo di
Mies è altrettanto emblematica e importante di una soluzione d’angolo eseguita
dall’architetto XYZ o di una soluzione d’angolo eseguita da un ignoto maestro
muratore del settecento o contemporaneo. Va ancora detto che sono utili per la
didattica sia le soluzioni “pensate” che le soluzioni “non” pensate, anche
quelle eseguite in modo abborracciato. Addirittura in certe soluzioni banali e
scontate si potranno trovare stimoli molto interessanti.
Inizieremo quindi ad analizzare criticamente le varie soluzioni
fotografate, facendo notare come quelle “pensate” conducano a risultati formali
e statici generalmente importanti, mentre le soluzioni banali portano a
risultati che dal punto di vista meramente architettonico e statico generalmente
pochissimo hanno da dire. Resta comunque il fatto che, come dianzi detto, anche
in un lavoro eseguito in modo banale e scadente si possono individuare stimoli
e suggerimenti, che, anche se presi per i capelli, possono portare lontano.
Anche se chi ha eseguito il lavoro certamente non aveva idea degli eventuali
sviluppi futuri che avrebbe potuto avere il suo manufatto. Come si può
immaginare una esercitazione del genere può portare a sviluppi molto intriganti
e interessanti. Queste particolari soluzioni d’angolo, una volta giunte sul
tavolo da disegno, saranno dunque, dopo essere state inizialmente fotografate, rilevate e disegnate correttamente utilizzando
i normali sistemi della proiezioni ortogonali, ottenendo così una serie di
sezioni e viste frontali e laterali.
Queste particolari fotografie iniziali, con le rispettive restituzioni
geometriche, dovrebbero essere depositate, con relative annotazioni e
suggerimenti a margine, in un database dedicato, e saranno quindi evidentemente messe a
disposizione di chiunque. Si inizierà così ad avere, dopo qualche tempo, moltissime
soluzioni dello stesso problema e, contemporaneamente ci accorgeremmo
che, pur essendo in presenza di una sola invariante, le soluzioni saranno
certamente infinite. Inizierà così a farsi strada fra gli studenti il
convincimento che il problema “invariante” esiste e non è evitabile per nessuna
ragione, ma che le sue soluzioni possono essere infinite.
Ipotesi
B. In questa seconda ipotesi di lavoro, verrà invece chiesto agli
studenti di fotografare qualche altro esempio della invariante numero 3,
premettendo loro che le foto ottenute ci serviranno come “suggerimento” per una
nuova forma che noi dovremo in seguito “manipolare” tenendo presenti le
caratteristiche formali e strutturali di quanto è stato fotografato. Una volta
fotografato l’episodio formale di partenza, ne sarà fatta la solita restituzione
(rilievo e disegno) in termini geometrici e in proiezioni ortogonali (pianta, sezioni varie e varie viste di
fronte) e si inizierà quindi a manipolare
la forma ottenuta combinando le forme già esistenti in nuove
combinazioni, ottenendo così delle nuove forme che, a loro volta, potranno
essere ulteriormente manipolate continuando ad usare lo stesso sistema di
combinazioni. Uno studente di scultura, per esempio, ha tratto degli
interessanti suggerimenti formali per una sua scultura, lavorando su una
soluzione d’angolo veneziana e databile nel rinascimento. Una delle
caratteristiche fondamentali del creativo è indubbiamente l’attenta
osservazione dell’esistente, osservazione che, quando è articolata con rigore,
oltre che con passione, permette la nascita di un’infinità di stimoli. Insomma
l’esercitazione consiste in una continua manipolazione della forma partendo
dallo studio di forme di cui conosciamo già le leggi generatrici, sia formali
che costruttive.
Lavorando con pazienza e con continuità si otterrà così una crescita ad
albero di stimoli e suggerimenti per
nuove vie da esplorare. Da uno stimolo ne discendono altri e così via. Fin qui
la mia teoria sulle invarianti.
A
questo punto scatta l’operazione di mettere insieme le invarianti da me
individuato e di cui ho parlato dianzi con quelle individuate da Bruno
Zevi.
Nel 1973 Bruno Zevi nel suo libro “Il linguaggio moderno
dell’architettura” edito da Einaudi, a pagina 9 e segg. così scriveva:
“Nel
1964 John Summerson pubblicò un saggio intitolato The Classical Language of
Architecture, successivamente tradotto in varie lingue. Ho atteso per un
decennio il suo naturale, indispensabile complemento: The Anti-Classical
Language of Architecture o, meglio, The Modern Language of Architecture, ma né
Summerson né altri lo ha scritto. Per quali motivi? Se ne intuiscono molteplici,
paralizzanti. Tuttavia la lacuna va colmata: è un compito improrogabile, il più
urgente per la cultura storico-critica; siamo già in estremo ritardo.
Senza una lingua non si parla. Anzi, come è noto, “la lingua ci parla”
nel senso che offre strumenti comunicativi in mancanza dei quali l’elaborazione
stessa dei pensieri sarebbe preclusa. Ebbene, nel corso dei secoli, una sola
lingua architettonica è stata codificata, quella del classicismo. Tutte le
altre, sottratte al processo riduttivo necessario per diventar lingue, sono
state considerate eccezioni alla regola classica e non alternative dotate di
lingua autonoma. Anche l’architettura moderna, sorta in polemica antitesi al
neoclassicismo, se non viene strutturata in lingua, rischia di regredire, una
volta esaurito il ciclo dell’avanguardia, ai frusti archetipi Beaux-Arts.
Situazione incredibile assurda. Stiamo dilapidando un colossale
patrimonio espressivo perché eludiamo la responsabilità di precisarlo e
renderlo più trasmissibile (Notare la straordinaria fondatezza di questa previsione
di Zevi a quasi quaranta anni di distanza! Pongo, con particolare passione,
l’accento su tre parole fondamentali: responsabilità, precisarlo
e trasmissibile. Nota di falanga). Tra poco, forse, non sapremo più
parlare architettura; in realtà, la maggioranza di coloro che progettano e
costruiscono oggi, biascica, emette suoni inarticolati, privi di significato,
non veicola alcun messaggio, ignora i mezzi per dire, quindi non dice e non ha
niente da dire. Pericolo anche più grave: esautorato il movimento moderno, non
saremo più in grado di leggere le immagini di tutti gli architetti che hanno
parlato una lingua diversa dal classicismo, i paleolitici, i maestri tardo
antichi e medioevali, i manieristi e Michelangelo, Borromini, le figure Arts
and Crafts e Art Nouveau, Wright, Loos, Le Corbusier, Gropius, Mies, Alto,
Sharoun, i giovani da Johansen a Safdie.
Oggi nessuno adopera gli ordini classici. Ma il classicismo è una forma
mentis che travalica gli “ordini”, riuscendo a congelare anche i discorsi
svolti con parole e verbi anticlassici. Il sistema Beaux-Arts infatti codificò
il gotico, poi i romanico, il barocco, l’egizio, il nipponico e, ultimo,
persino il moderno con un espediente semplicissimo: ibernandoli, cioè
classicizzandoli. Del resto, qualora si dimostrasse impossibile codificare in
senso dinamico il linguaggio moderno, non resterebbe che questa soluzione
suicida, già invocata da alcuni sciagurati, critici e/o architetti. (Altro che alcuni,
la quasi totalità! Nota di falanga).
Occorre dunque sperimentare, subito, senza velleità di risolvere a
priori, cioè fuori di concrete verifiche, tutti i problemi teoretici il cui
studio costituisce spesso un alibi per ulteriori dilazioni. Decine di libri e
centinaia di saggi discutono se l’architettura possa essere assimilata a una
lingua, se i linguaggi non verbali abbiano o meno una doppia articolazione, se
il proposito di codificare l’architettura moderna non sia destinato a sfociare
nell’arresto del suo sviluppo. L’indagine semiologica è fondamentale, ma non
possiamo pretendere che dipani, fuori dall’architettura, i problemi
architettonici. Bene o male, gli architetti comunicano; parlano architettura,
sia o no una lingua. Dobbiamo documentare con esattezza cosa implichi parlare
architettura in chiave anticlassica; se riusciamo, l’apparato teoretico verrà
da sé, inerente allo stesso scavo linguistico.
Migliaia di architetti e studenti architetti progettano, ma
disconoscendo il lessico, la grammatica e la sintassi del linguaggio moderno
che, rispetto al classicismo, sono l’antilessico, l’antigrammatica e
l’antisintassi. I critici, al duplice livello professionale e didattico,
giudicano: con quali criteri? Con quale legittimità in mancanza di essi? Ecco la
sfida che ci fronteggia, produttori ed utenti. Per capirci, bisogna usare una
stessa lingua, concordandone termini e procedure. Tema che appare gigantesco
solo perché fin qui inesplorato. (Anche qui la lucidità e il rigore di Bruno
Zevi si appalesano con grande leggerezza e lucidità. Nota di Falanga).
Obiettivo volutamente provocatorio: fissare una serie di “invarianti”
dell’architettura moderna, sulla base dei testi più significativi e
paradigmatici. Un dubbio: mentre nella lingua verbale il codice è
imprescindibile, pena la non comunicazione, in architettura chiunque può farlo
saltare a piacere, senza per questo rinunciare a costruire. Certo, può
costruire, perfino in stile babilonese se vuole, ma non comunicando altro che
le proprie nevrosi.
(Più chiaro di così. Nota di Falanga). Ho discusso l’argomento della
linguistica architettonica con docenti universitari e professionisti,
soprattutto con studenti inquieti, confusi, esacerbati dalla circostanza che
nessuno insegna loro una lingua con cui parlare. (Quante volte nel corso
della mia vita universitaria ho sentito dire: tutto si può insegnare tranne che
a progettare. Nota di Falanga). Da questi scambi è emersa una conclusione:
malgrado vi siano ottime ragioni per non aggredire un tema così difficile e
traumatico, bisogna superare l'impasse e cominciare.
Il presente saggio è anche più breve di quello, già succinto, di
Summerson. Analizza soltanto sette invarianti. Se ne possono aggiungere altre
dieci, venti o cinquanta; a condizione però che non contraddicano le
precedenti. La validità di questo approccio va collaudata sulle opere e sui
tavoli da disegno. Ognuno può esercitarsi nella verifica di questa “basic
language”. E non si meravigli scoprendo che, su cento edifici costruiti oggi,
novanta sono del tutto anacronistici, databili tra il, Rinascimento e il mondo
Beaux-Arts, otto contengono in modo incoerente qualche elemento lessicale
moderno e due, nel caso migliore, sgrammaticano, quindi non parlano la vecchia
lingua, ma neppure la nuova. V’è di più: persino i grandi maestri del movimento
moderno, come si vedrà, hanno prodotto talora opere retrograde, classiciste.
Sicché viene da chiedersi: che lingua è questa, se nessuno o pochissimi la
parlano? Si risponde con un altro interrogativo: potrebbe essere più diffusa,
senza elaborane il codice?
Questo lavoro ha l’ambizione di ogni atto eretico: suscitare il
dissenso. Se innescherà uno scontro, avrà raggiunto lo scopo: anziché parlare
sino al tedio
di architettura, finalmente parleremo architettura.”
E’ valsa la pena riportare questa premessa che Zevi scrisse diversi
decenni fa nel 1973, all’inizio del suo libro. Se soltanto qualche giovane
architetto oggi leggesse con attenzione questo aureo libro di Zevi ne trarrebbe
gran beneficio, facendo trarre gran beneficio anche alla comunità nella quale
dovesse operare. Leggendo oggi, all’inizio del secondo decennio del duemila, “Il
linguaggio moderno dell’architettura” alla luce di quanto scritto e alla
luce di oltre sessanta anni di storia italiana dell’architettura e
dell’urbanistica nei quali si è praticamente compiuta malinconicamente la
devastazione praticamente totale del territorio, vengono al pettine tutte le
carenze amministrative, le pigrizie culturali, le colpevoli assenze in campo
universitario, che, combinandosi perfettamente fra loro, hanno prodotto la
miserabile rovina del territorio medesimo. Un esempio valga per tutto quanto
detto finora. Nelle commissioni edilizie, dove, come si sa, si chiede il parere
degli “esperti” sulla giustezza, in tutti sensi, del manufatto in esame, quali
sono stati in questi anni i criteri di valutazione usati? I più assurdi, i più
fantasiosi, i più improbabili, in ogni caso una base comune di giudizio non è
mai ahimè esistita.
Prendendo per buono il suggerimento di Bruno Zevi: “se ne possono
aggiungere altre dieci, venti o cinquanta” (di invarianti. Nota di falanga)
provo dunque ad aggiungere le mie cinque invarianti alle sue sette, precisando
però che, mentre le invarianti zeviane si riferiscono al linguaggio moderno
dell’architettura, le invarianti che ho individuato e che leggerete qui di
seguito (sono elencate subito dopo quelle individuate da Bruno Zevi)
appartengono sia all’architettura classica che a quella contemporanea, sia
all’architettura prima dell’uso del cemento armato che a quella venuta in
seguito e nella quale si usava il cemento armato. Appartengono cioè alla
progettazione tout court, indipendentemente dal periodo temporale in cui la
progettazione è avvenuta.
Ed ecco dunque l’elenco aggiornato, con la fondata convinzione che possa
essere ulteriormente allungato:
Prima invariante zeviana del linguaggio
moderno dell’architettura: l’elenco delle funzioni edilizie in una villa di
Edwin Lutyens costruita in Inghilterra (1902).
Seconda invariante zeviana del linguaggio
moderno dell’architettura: asimmetria e dissonanze nella casa del direttore del
Bauhaus a Dessau, progettata da Walter Gropius nel 1925/26.
Terza invariante zeviana del linguaggio
moderno dell’architettura: tridimensionalità antiprospettica nella casa
Sternefeld a Berlino, progettata da Erich Mendelsohn nel periodo espressionista
(1923).
Quarta invariante zeviana del linguaggio
moderno dell’architettura: sintassi della scomposizione quadridimensionale nel
disegno Filmmoment di Hans
Richter, membro del gruppo De Stijl (1923).
Quinta invariante zeviana del linguaggio
moderno dell’architettura: strutture in aggetto, gusci e membrane nelle tende
plastiche del padiglione progettato da Frei Otto all’Expo di Montreal 1967.
Sesta invariante zeviana del linguaggio
moderno dell’architettura: temporalità dello spazio nella spirale continua del
Guggenheim Museum a New York progettato da F.L.Wright nel 1946-59.
Settima ed ultima invariante zeviana del
linguaggio moderno dell’architettura: reintegrazione edificio-città-territorio
nel Mummers Theater a Oklahoma City, progettato da John Johansen nel 1971.
Ottava invariante F (franz falanga) del
linguaggio dell’architettura, indipendentemente dal periodo temporale: studiare come è
stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso
in cui due materiali diversi siano in contatto fra loro, avendo stessa direzione e verso differente.
Nona invariante F (franz falanga) del
linguaggio dell’architettura, indipendentemente dal periodo temporale: studiare come è
stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso
in cui due materiali diversi siano in contatto fra loro, avendo due
direzioni diverse e confluendo nello stesso punto.
Decima invariante F (franz falanga) del
linguaggio dell’architettura, indipendentemente dal periodo temporale: studiare come è
stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso
in cui un unico materiale cambi
direzione.
Undicesima invariante F (franz falanga) del linguaggio
dell’architettura, indipendentemente dal periodo temporale: studiare
come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere,
il caso in cui un materiale termini.
Dodicesima invariante F (franz falanga) del linguaggio
dell’architettura, indipendentemente dal periodo temporale: studiare come è
stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso
in cui dovesse terminare un materiale,
iniziasse un vuoto e subito dopo ri-iniziasse quindi lo stesso materiale.
Se analizzassimo, ad esempio, la decima invariante, quella in cui un
materiale cambia direzione, noteremmo subito, come dianzi ho detto, che ci troviamo in presenza della soluzione
d'angolo. Come ci comporteremo noi o come si sono comportati gli altri
progettisti, in qualsiasi epoca e in qualsiasi punto della terra, il momento in
cui hanno dovuto far cambiare direzione allo stesso materiale? Si badi bene che
questo momento esiste sia nel caso in cui è necessario far deviare dal proprio
percorso una comunissima traccia di grafite ottenuta facendo muovere sul foglio
di carta un bastoncino di grafite a sezione quadrata, o una normalissima
matita, oppure una pastiglia di grafite a sezione trapezoidale, sia nel caso in
cui a doversi piegare (o voltare) è un muro in mattoni, o in tufi, o in
granito, alto trenta metri, o un profilato a T a U a L, o un tubo a sezione
circolare, o una casa a schiera, e così via di seguito.
Se invece prendiamo in considerazione l’ottava invariante, quella in cui
dobbiamo mettere in contatto due materiali diversi noteremo, altrettanto
immediatamente, che ci troviamo in presenza del complesso problema di rendere
interfacciabili due materiali completamente diversi fra loro. Anche questo
momento particolare è riscontrabile sia nel caso in cui il progettista sia un
architetto, un designer, un orafo, un sarto, un qualsivoglia creativo. Se si
esamineranno con attenzione le soluzioni individuate analizzando per esempio
l’unione di vetro e calcestruzzo, oppure di legno e pietra, oppure di laminato
plastico e alluminio, oppure di oro e argento, o di stoffa e cuoio, ci
accorgeremmo che è esattamente in questi particolari che vien fuori la maestria
o la banalità dei progettisti nel risolvere il problema.
L'aver dunque individuato la presenza di queste invarianti ci permette
di guardare in modo più attento e molto più rigoroso a tutte le varie soluzioni
che siano state trovate al problema, in qualsiasi tempo e luogo, dai rispettivi
progettisti. Nel caso invece di una
progettazione ex novo, la consapevolezza della inevitabile comparsa sulla scena
del progetto di queste invarianti ci dice che abbiamo costantemente degli
appuntamenti fissi con problemi formali e funzionali che non dovranno
assolutamente essere saltati a piè pari, che non si possono tranquillamente
eludere, ma che, al contrario, andranno affrontati e risolti senza cadere in
soluzioni banali, ovvie, o addirittura in non soluzioni. Quest’ultimo caso è il
peggiore, è cioè il caso in cui, quando codesti momenti topici si dovessero
appalesare, basterà ignorarli. Uno dei lati coinvolgenti di questo mio lavoro
fin qui descritto, è che, dopo che questa teoria è nata vivendo l’architettura
come mestiere, mi sono reso conto che può essere sperimentata anche nel design,
nella pratica letteraria, nella pratica filmica, in ogni campo, insomma, dove
la creatività sia la protagonista principale. A meno, ovviamente, dei naturali
e rispettivi coefficienti.
Tornando all’architettura, va da sè che se andassimo a consultare un
repertorio di tutte le soluzioni già fatte (e questo repertorio potrebbe essere
creato e continuamente aggiornato su un database dedicato), si otterrebbe un
notevole vantaggio nella didattica dell'architettura. Se pensiamo poi
all'altissimo numero di libri fotografici sull'architettura vedremmo che queste
invarianti sono sommerse (oltre che quasi sempre ignorate) da contesti più
grandi e da modi di fotografare l'architettura che non servono assolutamente a
nulla, tranne che a dare delle belle visioni d'insieme del manufatto. In molte
pubblicazioni le invarianti di cui stiamo parlando quasi mai sono state
minimamente prese in considerazione da chi ha fotografato le architetture e
salta dunque subito all'occhio che il modo con cui sono stati fotografati gli
oggetti architettonici forse non è quasi mai stato quello più giusto e più
corretto. Infatti, raccontare un'architettura o un oggetto, espressione della
creatività di chi l’ha ideato, per mezzo dell'immagine fotografica non serve
quasi a niente, evidentemente dal punto di vista della didattica, se non si va
ad indagare direttamente su "come" il progettista o i progettisti
hanno risolto le invarianti di cui sto parlando.
Salta quindi all'occhio la quasi completa inutilità di molti libri
fotografici sull'Architettura, libri nei quali, salvate le visioni d'assieme e
salvati alcuni scorci peraltro più che altro vicini alla ricerca di particolari
atmosfere e nulla più, non è assolutamente possibile individuare il
comportamento del progettista il momento in cui si è inevitabilmente trovato di
fronte alle invarianti in questione. Si pensi alle difficoltà nelle quali ogni
storico dell'Architettura (colui il quale parla “di” architettura) si troverà
tutte le volte in cui, non potendo porre sul proprio tavolo l'oggetto
architettonico in scala reale, sarà costretto ad analizzare l'opera attraverso
le fotografie che non saranno in grado
di dargli tutte le informazioni del caso, perchè chi ha fotografato l'opera in
questione non è andato a scovare e a fotografare le nostre invarianti non
sospettandone l'esistenza e il loro valore assoluto.
Sono le stesse difficoltà che potrebbe trovare sul proprio cammino anche
chi istituzionalmente "insegna
a progettare" cioè a “parlare” architettura.
Sintetizzando tutto quanto detto finora, tornando nella categoria
dell’architettura e tentando di fare un primo elenco di osservazioni scaturite
dalla lettura delle dodici invarianti è lecito quindi pensare che:
1) se un edificio rivelasse all’esterno le sue
funzioni,
2) se fosse asimmetrico,
3) se
avesse una tridimensionalità antiprospettica,
4) se
avesse come propria caratteristica la frantumazione dello spazio chiuso
scatolare,
5) se
venissero usate strutture leggere a guscio, a membrana,
6) se
venissero utilizzate tensostrutture,
7) se
ci fosse una continuità spazio temporale nell’interno e nei rapporti interno
esterno,
8) se
esistesse un corretto rapporto formale e funzionale con il territorio,
9)
se materiali diversi fossero messi
sapientemente in contatto fra loro,
10) se
gli angoli e se i cambiamenti di direzione fossero risolti con maestria e
leggerezza, 11) nel caso di un unico materiale, sia nel caso di due materiali,
12) se
le bucature fossero trattate con maestria formale e funzionale e con grande
senso della tecnologia,
forse, dico forse, il risultato potrebbe
essere quanto meno pensato al meglio e quindi potrebbe diventare un “vero”
oggetto di architettura o di design.
Sto pensando che una ulteriore invariante
potrebbe la Deperibilità dell’Architettura Contemporanea. Questa potrebbe essere una ulteriore
particolarissima invariante, la tredicesima allo stato latente. A quest’ultima eventuale invariante si
aggiungerebbero le due omogeneità, una verso l’alto e l’altra verso il
basso.
N.B. Si è preso come
esempio un oggetto architettonico, ma se si fosse preso in esame un mobile o un
qualsivoglia oggetto, le considerazioni sarebbero state le stesse. Ogni oggetto
ha una sua storia, una sua collocazione, una sua economia e una sua scala
rispetto a un territorio, sia esso mentale o fisico, per cui è anche lecito
supporre che un oggetto "pensato", possa “forse” dar luogo ad un
manufatto con caratteristiche interessanti. Non necessariamente tutto quello
che è stato "pensato" ha dato buoni frutti come è ovviamente ovvio
che questa maniera di pensare l'architettura non è assolutamente la ricetta per
costruire forme di rara finezza e giustezza. E' comunque un modo per dare migliori
caratteristiche formali e funzionali alla natura artificiale. Modo che, dati i
tempi di pressapochismo e dilettantismo in cui viviamo, andrebbe coltivato con
curiosità, impegno e costanza.
Alle dodici invarianti fin qui elencate, come dianzi detto, ho quindi
sentito il bisogno di aggiungere una tredicesima ed ultima (per ora) invariante
secondo me esistente alla stato latente la Deperibilità dell’Architettura
Contemporanea.
Zevi si augurava che altri architetti potessero aggiungere ulteriori
invarianti a quelle che lui aveva direttamente individuato. Giova ancora
ricordare ch scriveva lo stesso professor Zevi, un’aggiunta sarebbe stata
possibile a patto che non contraddicesse le precedenti. Mi pare corretto dal
punto di vista logico.
Mentre scrivevo queste note mi sono
ulteriormente venute in mente altre considerazioni circa la Deperibilità.
Non credo, avendo ci pensato su ancora, che potrebbe essere considerata
un’invariante dal punto di vista formale, ciò che comunque è certamente una caratteristica
invariante, perché comunque presente nell’architettura moderna. La
chiamerei quindi una caratteristica
costante più che una invariante
costante. Giova dire che è anche presente allo stato latente
nell’architettura classica, ma quello che mi convince ad inserirla fra i
momenti invarianti dell’architettura contemnporanea è esclusivamente il fattore temporale.
Va inoltre detto che, mentre nell’architettura classica questa
invariante è presente anche se molto, molto, molto diluita nei secoli, nell’architettura
moderna (uso l’aggettivo zeviano) al contrario si manifesta con virulenza (è la
parola più appropriata) addirittura dopo qualche decennio.
MI
ripeto, sto parlando della “deperibilità”
del manufatto architettonico nell’architettura contemporanea. L’architettura
contemporanea (qui l’aggettivo è mio) stranamente pare non contemplare l’invecchiamento fra le sue
caratteristiche. L’architettura contemporanea ahimè invecchia male e questo
fatto la condanna tragicamente. Un precoce invecchiamento dell’architettura
contemporanea medesima, caratteristica quasi mai risolta da moltissimi
architetti contemporanei, ancorchè prevedibile, è molto più cruento e molto più
pacchianamente evidente nell’architettura del XX secolo e degli inizi degli
anni duemila, ed è molto più evidente di quanto non lo sia il naturale
invecchiamento che invece insiste sull’architettura classica.
Nella pratica architettonica, da sempre, è logico e naturale che tutto
invecchi dal punto di vista formale, mentre è molto più difficoltoso a notarsi,
e quindi molto meno evidente, il fatto che tutto invecchi dal punto di vista
costruttivo. L’obsolescenza di una forma è fenomeno ricorrente da sempre,
mentre l’obsolescenza di un particolare costruttivo, di una struttura, di un intonaco,
di un rivestimento quale che sia, è molto più percettibile nell’architettura
contemporanea. Secondo me quindi L’architettura contemporanea, dal canto
suo, invecchia con minore dignità del resto dell’architettura che l’ha
preceduta nei secoli. Insisto nel ripetere che il deperimento, si
badi bene, non è un deperimento di tipo formale, ma un deperimento di tipo
fisico, nel senso che è visibile ad occhio nudo e viene ahimè percepito come un
normale invecchiamento, che
assume la caratteristica dell’ineluttabilità. La parola ineluttabilità
purtroppo caratterizza fortemente la nostra cultura contemporanea. Le cause di
questo deperimento fisico/funzionale sono molteplici, proverò inizialmente ad
elencarle.
Inizialmente al primo posto metterei i materiali. Il calcestruzzo, per
esempio, dopo un commensurabile tempo di esistenza, si sgretola in certi punti
a causa del ferro contenuto che, non essendo in alcune zone abbastanza
protetto, viene attaccato dagli agenti atmosferici producendo conseguenze che
tutti abbiamo sotto gli occhi. Il ferro viene anche attaccato da impurità
grossolane che spesso si trovano negli inerti.
Gli intonaci esterni contemporanei, insieme ai vari tipi di rivestimenti
anch’essi esterni, hanno delle componenti che non favoriscono la perfetta
respirazione delle murature, esterne ed interne, e producono conseguenze che
tutti conosciamo. La scomparsa quasi totale del grassello di calce che è stato
sostituito da nuovi prodotti simili ma di origine sintetica è un ulteriore
momento/causa di deperibilità. Per non parlare poi dei fenomeni degenerativi di
certe campiture di colore dovute all’uso di materiali sintetici che reagiscono
molto più rapidamente del normale alla luce naturale. aumentando di molto la
loro fotosensibilità.
Potrei
continuare, ma mi fermo qui perché, rileggendo queste brevi note mi sono
accorto che quando ho usato la frase “al
primo posto metterei i materiali” avrei dovuto molto brutalmente riscrivere
la frase medesima in altro modo, e cioè: “Al primo posto metterei l’uso
sconsiderato dei materiali e il consumismo dilagante”. Allora si
evincerebbe molto meglio la malinconica realtà. L’uomo, e cioè i progettisti,
gli esecutori, la committenza sempre meno illuminata, sono i veri artefici di
questo innaturale (perché rapido) invecchiamento dell’architettura
contemporanea.
Paul Valery, come diceva Scarpa, ha scritto che l’architettura è nei particolari,
ma, ahimè, questa virtuosa affermazione perde di significato il momento in cui
arriviamo ai giorni nostri. I particolari costruttivi ben studiati e i
particolari di altro ordine, rappresentano generalmente una perdita di tempo
preziosissimo per gli attuali addetti ai lavori, siano essi progettisti, siano
essi esecutori, per cui poco interessa a costoro la tenuta nel tempo di quanto
hanno architettato ed eseguito.
Non è dunque il nuovo che avanza, ma il pressappochismo che avanza; la
ricerca paziente del caro Lecorbu è andata in soffitta, per cui diventa
pateticamente inimmaginabile trascorrere giorni e giorni alla ricerca di
soluzioni costruttive e formali giuste. Tutto il grande patrimonio del
procedere per gradi, aumentando conseguentemente l’approfondimento, è scomparso
quasi completamente dalla coscienza collettiva degli addetti ai lavori.
Mutuando un’affermazione fatta da Baricco, non si va più in profondità, si
surfeggia. Chi mi starà leggendo ha certamente presente il tipico impresario
che tuona con supponenza contro gli architetti che gli fanno sprecare tempo
“prezioso”. Il meccanismo ormai è ben consolidato e ben oliato e quando, come
mi auguro caldamente, qualcuno vorrà nei secoli futuri scrivere la storia
dell’architettura del novecento e degli inizi del XXI secolo, dedicherà in
negativo molte pagine a questo periodo buio dell’architettura medesima
contemporanea e ahimè cosiddetta anche moderna.
Dopo aver individuato questa tredicesima latente costante
dell’architettura contemporanea (uso il mio aggettivo) che indubbiamente è, al
contrario delle altre, una caratterizzazione negativa dell’architettura moderna
(uso sempre il termine zeviano, io userei l’aggettivo contemporaneo) sorge prepotentemente il problema del come
progettare, tenendo conto delle sette invarianti zeviane e delle mie cinque,
cercando contemporaneamente di non incappare nella tredicesima invariante
“latente”, quella cioè che riguarda la deperibilità dell’architettura
contemporanea.
E
qui si propone il campo sul quale intervenire. E’ banalmente ovvio ma bisogna
intervenire sugli anelli deboli della filiera e cioè sui futuri architetti e
sulla mentalità della committenza. Per quanto riguarda gli architetti è
possibile intervenire all’interno delle strutture universitarie, per quello che
riguarda la committenza l’intervento è molto più difficoltoso ed articolato e
va rimandato in/ad altre sedi più acconce.
Tralascio quindi la committenza, intesa sia come clienti che come
esecutori, e passo tout court all’università, alle accademie, alle scuole di
design e a tutte le altre organizzazioni culturali dedicate all’insegnamento e
alla progettazione nel campo della forma e della funzione. In queste strutture,
secondo me, è ancora possibile, ancorchè molto difficile, riprendere le fila di
una cultura troncata, di un nuovo Bauhaus.
Dopo aver individuato la latente invariante che si potrebbe aggiungere
direttamente a quelle zeviane e alle mie, e cioè la deperibilità, mi sono
accorto che fra i due insiemi di invarianti che ho dianzi esposto (le
invarianti individuate da Bruno Zevi e quelle individuate da me) si è aperto un
canale di comunicazione che permette un interfacciamento che certamente sarà
utile nel prossimo futuro. Mi spiego meglio. Quest’interfacciamento, questa
collaborazione fra i due sistemi di invarianti, le zeviane e le mie, dovrebbe
rendere la “deperibilità” più diluita nel tempo, portando così i tempi di
deperimento molto più vicini a quelli più “naturalmente” lenti della cosiddetta
architettura classica. Come?
Innanzi tutto dedicando propedeuticamente buona parte della didattica
dell’architettura all’individuazione delle cinque invarianti da me individuate
e alla conseguente ricerca del massimo di soluzioni possibili. Dal punto di
vista della didattica, gli esempi che via via si accumuleranno nel database
delle soluzioni formali, che sarà continuamente aggiornato, implementeranno con
continuità un certo tipo di casistica che sarà di grande utilità per gli
studenti. Contemporaneamente gli studenti studieranno come le mie cinque
invarianti possano essere individuate, leggendone le soluzioni, anche
quando l’architettura parlava latino e greco. I futuri architetti, dovranno
quindi parlare architettura e, contemporaneamente, parlare
“di” architettura.
Aggredire questi due campi contemporaneamente
non rappresenta assolutamente la formula della felicità, ma mette gli
interessati di fronte a problemi reali, allo studio di interessanti soluzioni
nel campo dell’architettura non contemporanea e a ipotesi di lavoro nel
campo dell’architettura/progettazione contemporanea. Tutto ciò
significherebbe ridare il giusto posto al rigore analitico e a quello
propositivo, che negli ultimi decenni è stato sostituito da colpevolissime
leggerezza e fiducie varie, leggerezze e fiducie riposte in errate concezioni
delle creatività individuali degli studenti, creatività individuali, che, senza
leggi, rigore e meccanismi di approccio, non fanno altro che riportare il tutto
indietro nel tempo, avvicinandolo a una inesistente e dannosissima forma di
presunte “ingenuità e freschezze” compositive, finte ingenuità e finte
freschezze che hanno fatto più danni di una guerra.
Se tutto ciò dovesse accadere, penso che il Bauhaus brutalmente troncato
potrebbe riprendere il suo cammino, e che la frattura si potrebbe ricomporre
per cui, dal punto di vista della didattica, il cerchio si chiuderebbe. E,
sopra ogni cosa, la tredicesima invariante, cioè la rapida deperibilità
dell’architettura moderna, assumerebbe tempi più corretti e più naturali
svanendo quindi dolcemente nel “naturale” trascorrere del tempo
dell’architettura stessa. L’architettura contemporanea, non ha assolutamente
bisogno della eventuale tredicesima, cioè di quella invariante riguardante la
deperibilità dei materiali.