venerdì 31 luglio 2015

TEORIA COMPLETA DELLE INVARIANTI NELL'ARCHITETTURA


Ed ecco dunque l’elenco aggiornato, delle invarianti Zeviane e di quelle individuate da chi sta scrivendo queste note. con la fondata convinzione che quest’elenco possa essere ulteriormente allungato. Giova ricordare che le invarianti individuate da Bruno Zevi si ritrovano solo nell’architettura contemporanea mentre le invarianti individuate da franz falanga sono individuabili sia nell’architettura che parlava latino e greco, sia nel caso  dell’architettura  contemporanea. 

 

Prima invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: l’elenco delle funzioni edilizie in una villa di Edwin Lutyens costruita in Inghilterra (1902).

 

Seconda invariante zeviana del linguaggio moderno

dell’architettura: asimmetria e dissonanze nella casa del direttore del Bauhaus a Dessau, progettata da Walter Gropius nel 1925/26.

 

Terza invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: tridimensionalità antiprospettica nella casa Sternefeld a Berlino, progettata da Erich Mendelsohn nel periodo espressionista (1923).

 

Quarta invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: sintassi della scomposizione quadridimensionale nel disegno Filmmoment di Hans Richter, membro del gruppo De Stijl (1923).

 

Quinta invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: strutture in aggetto, gusci e membrane nelle tende plastiche del padiglione progettato da Frei Otto all’Expo di Montreal 1967.

 

Sesta invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: temporalità dello spazio nella spirale continua del Guggenheim Museum a New York progettato da F.L.Wright nel 1946-59.

 

Settima ed ultima invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: reintegrazione edificio-città-territorio nel Mummers Theater a Oklahoma City, progettato da John Johansen nel 1971.

 

Ottava invariante franz falanga del linguaggio dell’architettura indipendentemente dal periodo temporale: studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui due materiali diversi siano in contatto fra loro, avendo stessa direzione e verso differente.

 

Nona invariante franz falanga del linguaggio dell’architettura indipendentemente dal periodo temporale: studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui due materiali diversi siano in contatto fra loro, avendo due direzioni diverse e confluendo nello stesso punto.

 

Decima invariante franz falanga del linguaggio dell’architettura indipendentemente dal periodo temporale: studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui un unico materiale cambi direzione.

 

Undicesima invariante franz falanga del linguaggio dell’architettura indipendentemente dal periodo temporale: studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui un materiale termini.

 

Dodicesima invariante franz falanga del linguaggio dell’architettura indipendentemente dal periodo temporale: studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui dovesse terminare un materiale, iniziasse un vuoto e subito dopo ri-iniziasse quindi lo stesso materiale.

 

 

CONSIDERAZIONI

Se analizzassimo, ad esempio, la decima invariante, quella in cui un materiale cambia direzione, noteremmo subito, come dianzi ho detto,che ci troviamo in presenza della soluzione d'angolo. Come ci comporteremo noi o come si sono comportati gli altri progettisti, in qualsiasi epoca e in qualsiasi punto della terra, il momento in cui hanno dovuto far cambiare direzione allo stesso materiale? Si badi bene che questo momento esiste sia nel caso in cui è necessario far deviare dal proprio percorso una comunissima traccia di grafite ottenuta facendo scorrere sul foglio di carta un bastoncino di grafite a sezione quadrata, sia una normalissima matita, sia una pastiglia di grafite a sezione trapezoidale, sia nel caso in cui a doversi piegare (o voltare) è un muro in mattoni, o in tufi, o in granito, oppure un profilato a T, a U, a L, o un tubo a sezione circolare, o una serie di case a schiera che dovessero cambiare direzione, e così via di seguito.

 

Se invece prendiamo in considerazione l’ottava invariante, quella in cui dobbiamo mettere in contatto due materiali diversi noteremo, altrettanto immediatamente, che ci troviamo in presenza del complesso problema di rendere interfacciabili due materiali completamente diversi fra loro. Anche questo momento particolare è riscontrabile sia nel caso in cui il progettista sia un architetto, sia nel caso in cui si tratti di un

designer, un orafo, un sarto, un qualsivoglia creativo. Esaminando con attenzione le soluzioni individuate, per esempio l’unione di vetro e calcestruzzo, oppure l’unione di legno e pietra, oppure una unione di laminato plastico e alluminio, oppure una unione di oro e argento, o di stoffa e cuoio, ci accorgeremmo che è esattamente in questi particolari che vien fuori la maestria o la banalità dei progettisti nel risolvere il problema.

 

L'aver dunque individuato la presenza di queste nuove invarianti, sto adesso parlando di quelle da me individuate  ci permetterà di guardare in modo più attento e molto più rigoroso a tutte le varie soluzioni del problema che siano state individuate in qualsiasi tempo e luogo dai rispettivi progettisti. Nel caso invece di una progettazione ex novo, la consapevolezza della inevitabile “comparsa”, sulla scena del progetto, di queste invarianti ci dice che abbiamo costantemente degli appuntamenti fissi con problemi formali e strutturali  che non dovranno assolutamente essere saltati a piè pari, che non si possono tranquillamente eludere, che è colpevole pratica ignorare, ma che, al contrario, dovranno essere affrontati e risolti senza cadere in soluzioni banali, ovvie, o, addirittura, in non soluzioni. Quest’ultimo caso è il peggiore, perchè, giova ripeterlo, è il tipico caso in cui, quando codesti momenti topici si dovessero appalesare, vengono colpevolmente ignorati. Uno dei lati coinvolgenti di questo mio lavoro fin qui descritto, è che, dopo che questa teoria è nata vivendo l’architettura come mestiere, mi sono reso conto che può essere sperimentata anche nel design, nella pratica letteraria, nella pratica filmica, in ogni campo insomma, dove la creatività sia la protagonista principale. A meno, ovviamente, dei naturali e rispettivi coefficienti.

 

Tornando all’architettura (e alle altre categorie creative come dianzi detto) e alle invarianti, il momento in cui si decidesse di utilizzare questa teoria nella propria progettazione o parlandone agli studenti nascono ovviamente altri due problemi molto interessanti, e molto coinvolgenti. Mi spiego subito. I libri fotografici sull’architettura o  su oggetti di design, nati prima della teoria delle invarianti, nei quali le fotografie degli oggetti erano state scattate senza tener presente l’esistenza delle invarianti, ridurrebbe di molto l’utilità di codesti libri. Va da sè che sarà quindi necessario ri - eseguire fotografie nelle quali le invarianti siano evidenziate in maniera estremamente chiara.

Questa nuova maniera di concepire le fotografie di oggetti architettonici o di design, assumerebbe una straordinaria utilità, specialmente nella didattica dell’architettura e nella storia dell’architettura. Il secondo problema nasce anch’esso  come necessaria conseguenza, nel senso che, se tutte le fotografie delle invarianti di architettura o di design, fossero inserite in un database dedicato, la didattica e la conoscenza avrebbero uno strumento in più. Evidentemente i database delle università e delle Accademie dovrebbero essere tutti compatibili fra loro in modo da poter trasferire foto di invarianti da una banca dati, ad un’altra per aggiornamenti continui.  E’ evidentemente ovvia l’utilità di database del genere.  

Queste due novità strumentali, rifare le foto alla luce delle invarianti e progettare particolari database  dedicati, sarebbero oltre tutto due nuove occasioni di lavoro per le nuove generazioni.    

 

E’ molto importante sapere che Bruno Zevi si augurava che altri architetti potessero aggiungere ulteriori invarianti a quelle che lui aveva direttamente individuato. Come però scriveva lo stesso professor Zevi, le future aggiunte sarebbero state le benvenute a patto che non contraddicessero le precedenti. Mi pare assolutamente corretto dal punto di vista logico.

 

Mentre scrivevo queste note mi è venuta in mente un’altra invariante, allo stato “latente”  della quale però non sono però molto convinto, perchè questa nuova tredicesima eventuale invariante da me individuata non credo che potrebbe essere considerata un’invariante dal punto di vista formale, mentre è certamente una caratteristica invariante, comunque presente nell’architettura moderna.

La chiamerei quindi una caratteristica costante più che una invariante costante. Giova dire che è anche presente allo stato latente nell’architettura classica, ma quello che mi convince ad inserirla fra i momenti invarianti dell’architettura contemporanea è esclusivamente il fattore temporale.

        Va quindi detto che, mentre nell’architettura che parlava latino e greco e nelle architetture precedenti l’uso del cemento armato, questa invariante è comunque presente anche se molto, molto, molto diluita nei secoli, nell’architettura contemporanea, al contrario, si manifesta con virulenza (è la parola più appropriata) addirittura dopo qualche decennio.

Giova il ripeterlo, sto parlando della “deperibilità” del manufatto architettonico nell’architettura contemporanea. L’architettura contemporanea stranamente pare non contemplare l’invecchiamento fra le sue caratteristiche. L’architettura contemporanea ahimè invecchia male e questo fatto la condanna tragicamente. Un precoce invecchiamento dell’architettura contemporanea in questione, è una particolarissima caratteristica quasi mai risolta da moltissimi architetti contemporanei, perché, ancorchè prevedibile, è molto più cruenta e molto più pacchianamente evidente nell’architettura del XX secolo e in quella degli inizi degli anni duemila. A fronte del “naturale” invecchiamento che invece insiste sull’architettura classica.

     Nella pratica architettonica, da sempre, è logico e naturale che tutto invecchi dal punto di vista formale, mentre è molto più difficoltoso a notarsi, e quindi molto meno evidente, il fatto che tutto invecchi dal punto di vista costruttivo.

      L’obsolescenza di una forma o di una struttura è fenomeno ricorrente da sempre, ma questa obsolescenza, ahimè, è molto più percettibile nell’architettura contemporanea. Secondo me quindi L’architettura contemporanea, dal canto suo, invecchia con minore dignità del resto dell’architettura che l’ha preceduta nei secoli. Le cause di questo deperimento fisico/funzionale sono molteplici, proverò inizialmente ad elencarle.

       Al primo posto metterei i materiali. Il calcestruzzo, per esempio, dopo un commensurabile tempo di esistenza, si sgretola in certi punti a causa del ferro entrocontenuto che, non essendo in alcuni punti abbastanza protetto, viene attaccato dagli agenti atmosferici producendo conseguenze che tutti abbiamo sotto gli occhi. Il ferro viene anche attaccato da impurità grossolane che spesso si trovano negli inerti.

     E ancora, gli intonaci esterni contemporanei, insieme ai vari tipi di rivestimenti anch’essi esterni, hanno delle componenti che non favoriscono la perfetta respirazione delle murature, esterne ed interne, e producono conseguenze che tutti conosciamo. La scomparsa quasi totale del grassello di calce che è stato sostituito da nuovi prodotti simili ma di origine sintetica è un ulteriore momento/causa di deperibilità. Per non parlare poi dei fenomeni degenerativi di certe campiture di colore dovute all’uso di materiali sintetici che reagiscono molto più rapidamente del normale alla luce naturale, aumentando di molto la loro fotosensibilità.

       Potrei continuare, ma mi fermo qui perché, rileggendo queste brevi note mi sono accorto che quando ho usato la frase “al primo posto metterei i materiali” avrei dovuto molto brutalmente riscrivere la frase medesima in altro modo, e cioè: “Al primo posto metterei l’uso sconsiderato dei materiali e il consumismo dilagante”. Allora si evincerebbe molto meglio la malinconica realtà. L’uomo, e cioè i progettisti, gli esecutori, la committenza sempre meno illuminata, sono i veri artefici di questo innaturale (perché rapido) invecchiamento dell’architettura contemporanea.

       Paul Valery, come diceva Scarpa, ha scritto che l’architettura è nei particolari, ma, ahimè, questa virtuosa affermazione perde di significato il momento in cui arriviamo ai giorni nostri. I particolari costruttivi ben studiati e i particolari di altro ordine, rappresentano generalmente una perdita di tempo preziosissimo per gli attuali addetti ai lavori, siano essi i progettisti, siano essi gli esecutori, ai quali poco interessa la tenuta nel tempo di quanto hanno  eseguito.

       Non è dunque il nuovo che avanza, ma il pressappochismo che avanza; la ricerca paziente del caro Lecorbu è andata in soffitta, per cui diventa pateticamente inimmaginabile trascorrere giorni e giorni alla ricerca di soluzioni costruttive e formali giuste. Tutto il grande patrimonio del procedere per gradi, aumentando conseguentemente l’approfondimento, è scomparso quasi completamente dalla coscienza collettiva degli addetti ai lavori. Mutuando un’affermazione fatta da Baricco, non si va più in profondità, si surfeggia. Chi mi starà leggendo ha certamente presente il tipico impresario che tuona con supponenza contro gli architetti che gli fanno sprecare tempo “prezioso”. Il meccanismo ormai è ben consolidato e ben oliato e quando, come mi auguro caldamente, qualcuno vorrà nei secoli futuri scrivere la storia dell’architettura del novecento e degli inizi del XXI secolo, dedicherà in negativo molte pagine a questo periodo buio dell’architettura  contemporanea e ahimè spesso considerata  anche moderna.

       Dopo aver individuato questa tredicesima latente costante dell’architettura contemporanea che indubbiamente è, al contrario delle altre, una caratterizzazione negativa, sorge prepotentemente il problema del come progettare, tenendo conto delle sette invarianti zeviane e delle mie cinque, cercando contemporaneamente di non incappare nella tredicesima invariante “latente”, quella cioè che riguarda la deperibilità dell’architettura contemporanea.

      E qui si propone il campo sul quale intervenire. E’ banalmente ovvio, ma bisogna intervenire sugli anelli deboli della filiera e cioè sui futuri architetti e sulla mentalità della committenza. Per quanto riguarda gli architetti è possibile intervenire all’interno delle strutture universitarie, per quello che riguarda la committenza l’intervento è molto più difficoltoso ed articolato e va rimandato in/ad altre sedi più acconce. Tralascio quindi la committenza, intesa sia come clienti che come esecutori, e passo tout court all’università, alle accademie, alle scuole di design e a tutte le altre organizzazioni culturali dedicate all’insegnamento e alla progettazione nel campo della forma e della funzione. In queste strutture, secondo me, è ancora possibile, ancorchè molto difficile, riprendere le fila di una cultura troncata, di un nuovo Bauhaus. Dopo aver individuato la latente invariante che si potrebbe aggiungere direttamente a quelle zeviane e alle mie, e cioè la deperibilità, mi sono accorto che fra i due insiemi di invarianti che ho dianzi esposto (le invarianti individuate da Bruno Zevi e quelle individuate da me) si è aperto un canale di comunicazione che permette un interfacciamento che certamente sarà utile nel prossimo futuro. Mi spiego meglio. Quest’interfacciamento, questa collaborazione fra i due sistemi di invarianti, le zeviane e le mie, dovrebbe rendere la “deperibilità” più diluita nel tempo, portando così i tempi di deperimento molto più vicini a quelli più “naturalmente” lenti della cosiddetta architettura classica. Come? Innanzi tutto dedicando propedeuticamente buona parte della didattica dell’architettura all’individuazione delle cinque invarianti da me individuate e alla conseguente ricerca del massimo di soluzioni possibili. Dal punto di vista della didattica, gli esempi che via via si accumuleranno nei database delle soluzioni formali, che saranno aggiornati in continuazione, implementeranno con continuità un certo tipo di casistica che sarà di grande utilità per gli studenti. Contemporaneamente gli studenti studieranno come le mie cinque invarianti possano essere individuate, leggendone le soluzioni, anche quando l’architettura parlava latino e greco. I futuri architetti, dovranno quindi parlare architettura e, contemporaneamente, parlare “di” architettura.

        Aggredire questi due campi contemporaneamente non rappresenta assolutamente la formula della felicità, ma mette gli interessati di fronte a problemi reali, allo studio di interessanti soluzioni nel campo dell’architettura non contemporanea e a ipotesi di lavoro nel campo dell’architettura/progettazione contemporanea. Tutto ciò significherebbe ridare il giusto posto al rigore analitico e a quello propositivo, che negli ultimi decenni è stato sostituito da colpevolissime leggerezza e fiducie varie, leggerezze e fiducie riposte in errate concezioni delle creatività individuali degli studenti, creatività individuali, che, senza leggi, rigore e meccanismi di approccio, non fanno altro che riportare il tutto indietro nel tempo, avvicinandolo a una inesistente e dannosissima forma di presunte “ingenuità e freschezze” compositive, finte ingenuità e finte freschezze che hanno fatto più danni di una guerra.

        Se tutto ciò dovesse accadere, penso che il Bauhaus brutalmente troncato potrebbe riprendere il suo cammino, e che la frattura si potrebbe ricomporre per cui, dal punto di vista della didattica, il cerchio si chiuderebbe. E, sopra ogni cosa, la tredicesima invariante, cioè la rapida deperibilità dell’architettura moderna, assumerebbe tempi più corretti e più naturali, svanendo quindi dolcemente nel “naturale” trascorrere del tempo dell’architettura stessa. L’architettura contemporanea, non ha assolutamente bisogno della eventuale tredicesima invariante.  

 

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