Ed ecco dunque
l’elenco aggiornato, delle invarianti Zeviane e di quelle individuate da chi
sta scrivendo queste note. con la fondata convinzione che quest’elenco possa
essere ulteriormente allungato. Giova ricordare che le invarianti individuate
da Bruno Zevi si ritrovano solo nell’architettura contemporanea mentre le
invarianti individuate da franz falanga sono individuabili sia nell’architettura
che parlava latino e greco, sia nel caso
dell’architettura contemporanea.
Prima invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: l’elenco
delle funzioni edilizie in una villa di Edwin Lutyens costruita in Inghilterra
(1902).
Seconda invariante zeviana del linguaggio moderno
dell’architettura:
asimmetria e dissonanze nella casa del direttore del Bauhaus a Dessau,
progettata da Walter Gropius nel 1925/26.
Terza invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: tridimensionalità
antiprospettica nella casa Sternefeld a Berlino, progettata da Erich Mendelsohn
nel periodo espressionista (1923).
Quarta invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: sintassi
della scomposizione quadridimensionale nel disegno Filmmoment di Hans Richter, membro
del gruppo De Stijl (1923).
Quinta invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: strutture
in aggetto, gusci e membrane nelle tende plastiche del padiglione progettato da
Frei Otto all’Expo di Montreal 1967.
Sesta invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: temporalità
dello spazio nella spirale continua del Guggenheim Museum a New York progettato
da F.L.Wright nel 1946-59.
Settima ed ultima invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura:
reintegrazione edificio-città-territorio nel Mummers Theater a Oklahoma City,
progettato da John Johansen nel 1971.
Ottava invariante franz falanga del linguaggio dell’architettura indipendentemente
dal periodo temporale: studiare come è stato risolto strutturalmente e/o
formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui due materiali diversi
siano in contatto fra loro, avendo stessa direzione e verso differente.
Nona invariante franz falanga del linguaggio dell’architettura indipendentemente
dal periodo temporale: studiare come è stato risolto strutturalmente e/o
formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui due materiali diversi
siano in contatto fra loro, avendo due direzioni diverse e confluendo nello
stesso punto.
Decima invariante franz falanga del linguaggio dell’architettura indipendentemente
dal periodo temporale: studiare come è stato risolto strutturalmente e/o
formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui un unico materiale cambi
direzione.
Undicesima invariante franz falanga del linguaggio dell’architettura
indipendentemente dal periodo temporale: studiare come è stato risolto
strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui un
materiale termini.
Dodicesima invariante franz falanga del linguaggio dell’architettura
indipendentemente dal periodo temporale: studiare come è stato risolto
strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui
dovesse terminare un materiale, iniziasse un vuoto e subito dopo ri-iniziasse
quindi lo stesso materiale.
CONSIDERAZIONI
Se analizzassimo, ad
esempio, la decima invariante, quella in cui un materiale cambia direzione,
noteremmo subito, come dianzi ho detto,che ci troviamo in presenza della
soluzione d'angolo. Come ci comporteremo noi o come si sono comportati gli
altri progettisti, in qualsiasi epoca e in qualsiasi punto della terra, il
momento in cui hanno dovuto far cambiare direzione allo stesso materiale? Si
badi bene che questo momento esiste sia nel caso in cui è necessario far deviare
dal proprio percorso una comunissima traccia di grafite ottenuta facendo
scorrere sul foglio di carta un bastoncino di grafite a sezione quadrata, sia
una normalissima matita, sia una pastiglia di grafite a sezione trapezoidale,
sia nel caso in cui a doversi piegare (o voltare) è un muro in mattoni, o in
tufi, o in granito, oppure un profilato a T, a U, a L, o un tubo a sezione
circolare, o una serie di case a schiera che dovessero cambiare direzione, e
così via di seguito.
Se invece prendiamo
in considerazione l’ottava invariante, quella in cui dobbiamo mettere in
contatto due materiali diversi noteremo, altrettanto immediatamente, che ci
troviamo in presenza del complesso problema di rendere interfacciabili due
materiali completamente diversi fra loro. Anche questo momento particolare è riscontrabile
sia nel caso in cui il progettista sia un architetto, sia nel caso in cui si
tratti di un
designer, un orafo,
un sarto, un qualsivoglia creativo. Esaminando con attenzione le soluzioni
individuate, per esempio l’unione di vetro e calcestruzzo, oppure l’unione di
legno e pietra, oppure una unione di laminato plastico e alluminio, oppure una
unione di oro e argento, o di stoffa e cuoio, ci accorgeremmo che è esattamente
in questi particolari che vien fuori la maestria o la banalità dei progettisti
nel risolvere il problema.
L'aver dunque
individuato la presenza di queste nuove invarianti, sto adesso parlando di
quelle da me individuate ci permetterà
di guardare in modo più attento e molto più rigoroso a tutte le varie soluzioni
del problema che siano state individuate in qualsiasi tempo e luogo dai
rispettivi progettisti. Nel caso invece di una progettazione ex novo, la consapevolezza
della inevitabile “comparsa”, sulla scena del progetto, di queste invarianti ci
dice che abbiamo costantemente degli appuntamenti fissi con problemi formali e
strutturali che non dovranno
assolutamente essere saltati a piè pari, che non si possono tranquillamente
eludere, che è colpevole pratica ignorare, ma che, al contrario, dovranno
essere affrontati e risolti senza cadere in soluzioni banali, ovvie, o, addirittura,
in non soluzioni. Quest’ultimo caso è il peggiore, perchè, giova ripeterlo, è il
tipico caso in cui, quando codesti momenti topici si dovessero appalesare,
vengono colpevolmente ignorati. Uno dei lati coinvolgenti di questo mio lavoro
fin qui descritto, è che, dopo che questa teoria è nata vivendo l’architettura come
mestiere, mi sono reso conto che può essere sperimentata anche nel design,
nella pratica letteraria, nella pratica filmica, in ogni campo insomma, dove la
creatività sia la protagonista principale. A meno, ovviamente, dei naturali e
rispettivi coefficienti.
Tornando
all’architettura (e alle altre categorie creative come dianzi detto) e alle
invarianti, il momento in cui si decidesse di utilizzare questa teoria nella
propria progettazione o parlandone agli studenti nascono ovviamente altri due
problemi molto interessanti, e molto coinvolgenti. Mi spiego subito. I libri
fotografici sull’architettura o su
oggetti di design, nati prima della teoria delle invarianti, nei quali le
fotografie degli oggetti erano state scattate senza tener presente l’esistenza
delle invarianti, ridurrebbe di molto l’utilità di codesti libri. Va da sè che sarà
quindi necessario ri - eseguire fotografie nelle quali le invarianti siano
evidenziate in maniera estremamente chiara.
Questa nuova maniera
di concepire le fotografie di oggetti architettonici o di design, assumerebbe
una straordinaria utilità, specialmente nella didattica dell’architettura e
nella storia dell’architettura. Il secondo problema nasce anch’esso come necessaria conseguenza, nel senso che,
se tutte le fotografie delle invarianti di architettura o di design, fossero
inserite in un database dedicato, la didattica e la conoscenza avrebbero uno
strumento in più. Evidentemente i database delle università e delle Accademie
dovrebbero essere tutti compatibili fra loro in modo da poter trasferire foto
di invarianti da una banca dati, ad un’altra per aggiornamenti continui. E’ evidentemente ovvia l’utilità di database
del genere.
Queste due novità
strumentali, rifare le foto alla luce delle invarianti e progettare particolari
database dedicati, sarebbero oltre tutto
due nuove occasioni di lavoro per le nuove generazioni.
E’ molto importante sapere che Bruno Zevi si augurava che
altri architetti potessero aggiungere ulteriori invarianti a quelle che lui
aveva direttamente individuato. Come però scriveva lo stesso professor Zevi, le
future aggiunte sarebbero state le benvenute a patto che non contraddicessero
le precedenti. Mi pare assolutamente corretto dal punto di vista logico.
Mentre scrivevo queste note mi è venuta in mente un’altra
invariante, allo stato “latente” della
quale però non sono però molto convinto, perchè questa nuova tredicesima
eventuale invariante da me individuata non credo che potrebbe essere
considerata un’invariante dal punto di vista formale, mentre è
certamente una caratteristica invariante, comunque
presente nell’architettura moderna.
La chiamerei quindi una caratteristica costante più che una invariante costante. Giova dire che è anche presente allo
stato latente nell’architettura classica, ma quello che mi convince ad inserirla
fra i momenti invarianti dell’architettura contemporanea è esclusivamente il
fattore temporale.
Va quindi detto
che, mentre nell’architettura che parlava latino e greco e nelle architetture
precedenti l’uso del cemento armato, questa invariante è comunque presente
anche se molto, molto, molto diluita nei secoli, nell’architettura contemporanea,
al contrario, si manifesta con virulenza (è la parola più appropriata)
addirittura dopo qualche decennio.
Giova il ripeterlo, sto parlando della “deperibilità”
del manufatto architettonico nell’architettura contemporanea. L’architettura
contemporanea stranamente pare non contemplare l’invecchiamento fra le
sue caratteristiche. L’architettura contemporanea ahimè invecchia male e questo
fatto la condanna tragicamente. Un precoce invecchiamento dell’architettura
contemporanea in questione, è una particolarissima caratteristica quasi mai
risolta da moltissimi architetti contemporanei, perché, ancorchè prevedibile, è
molto più cruenta e molto più pacchianamente evidente nell’architettura del XX
secolo e in quella degli inizi degli anni duemila. A fronte del “naturale”
invecchiamento che invece insiste sull’architettura classica.
Nella pratica
architettonica, da sempre, è logico e naturale che tutto invecchi dal punto di
vista formale, mentre è molto più difficoltoso a notarsi, e quindi molto meno
evidente, il fatto che tutto invecchi dal punto di vista costruttivo.
L’obsolescenza
di una forma o di una struttura è fenomeno ricorrente da sempre, ma questa
obsolescenza, ahimè, è molto più percettibile nell’architettura contemporanea.
Secondo me quindi L’architettura
contemporanea, dal canto suo, invecchia con minore dignità del resto
dell’architettura che l’ha preceduta nei secoli. Le cause di questo
deperimento fisico/funzionale sono molteplici, proverò inizialmente ad
elencarle.
Al primo
posto metterei i materiali. Il calcestruzzo, per esempio, dopo un commensurabile
tempo di esistenza, si sgretola in certi punti a causa del ferro entrocontenuto
che, non essendo in alcuni punti abbastanza protetto, viene attaccato dagli
agenti atmosferici producendo conseguenze che tutti abbiamo sotto gli occhi. Il
ferro viene anche attaccato da impurità grossolane che spesso si trovano negli
inerti.
E ancora, gli
intonaci esterni contemporanei, insieme ai vari tipi di rivestimenti anch’essi
esterni, hanno delle componenti che non favoriscono la perfetta respirazione
delle murature, esterne ed interne, e producono conseguenze che tutti
conosciamo. La scomparsa quasi totale del grassello di calce che è stato
sostituito da nuovi prodotti simili ma di origine sintetica è un ulteriore
momento/causa di deperibilità. Per non parlare poi dei fenomeni degenerativi di
certe campiture di colore dovute all’uso di materiali sintetici che reagiscono
molto più rapidamente del normale alla luce naturale, aumentando di molto la
loro fotosensibilità.
Potrei
continuare, ma mi fermo qui perché, rileggendo queste brevi note mi sono
accorto che quando ho usato la frase “al
primo posto metterei i materiali” avrei dovuto molto brutalmente riscrivere
la frase medesima in altro modo, e cioè: “Al primo posto metterei l’uso
sconsiderato dei materiali e il consumismo dilagante”. Allora si
evincerebbe molto meglio la malinconica realtà. L’uomo, e cioè i progettisti,
gli esecutori, la committenza sempre meno illuminata, sono i veri artefici di
questo innaturale (perché rapido) invecchiamento dell’architettura
contemporanea.
Paul Valery,
come diceva Scarpa, ha scritto che l’architettura
è nei particolari, ma, ahimè, questa virtuosa affermazione perde di
significato il momento in cui arriviamo ai giorni nostri. I particolari
costruttivi ben studiati e i particolari di altro ordine, rappresentano
generalmente una perdita di tempo preziosissimo per gli attuali addetti ai
lavori, siano essi i progettisti, siano essi gli esecutori, ai quali poco
interessa la tenuta nel tempo di quanto hanno eseguito.
Non è dunque
il nuovo che avanza, ma il pressappochismo che avanza; la ricerca paziente del
caro Lecorbu è andata in soffitta, per cui diventa pateticamente inimmaginabile
trascorrere giorni e giorni alla ricerca di soluzioni costruttive e formali
giuste. Tutto il grande patrimonio del procedere per gradi, aumentando
conseguentemente l’approfondimento, è scomparso quasi completamente dalla
coscienza collettiva degli addetti ai lavori. Mutuando un’affermazione fatta da
Baricco, non si va più in profondità, si surfeggia. Chi mi starà leggendo ha
certamente presente il tipico impresario che tuona con supponenza contro gli
architetti che gli fanno sprecare tempo “prezioso”. Il meccanismo ormai è ben
consolidato e ben oliato e quando, come mi auguro caldamente, qualcuno vorrà
nei secoli futuri scrivere la storia dell’architettura del novecento e degli
inizi del XXI secolo, dedicherà in negativo molte pagine a questo periodo buio
dell’architettura contemporanea e ahimè spesso
considerata anche moderna.
Dopo aver
individuato questa tredicesima latente costante dell’architettura contemporanea
che indubbiamente è, al contrario delle altre, una caratterizzazione negativa,
sorge prepotentemente il problema del come progettare, tenendo conto delle sette
invarianti zeviane e delle mie cinque, cercando contemporaneamente di non
incappare nella tredicesima invariante “latente”, quella cioè che riguarda la
deperibilità dell’architettura contemporanea.
E qui si
propone il campo sul quale intervenire. E’ banalmente ovvio, ma bisogna
intervenire sugli anelli deboli della filiera e cioè sui futuri architetti e
sulla mentalità della committenza. Per quanto riguarda gli architetti è
possibile intervenire all’interno delle strutture universitarie, per quello che
riguarda la committenza l’intervento è molto più difficoltoso ed articolato e
va rimandato in/ad altre sedi più acconce. Tralascio quindi la committenza,
intesa sia come clienti che come esecutori, e passo tout court all’università,
alle accademie, alle scuole di design e a tutte le altre organizzazioni
culturali dedicate all’insegnamento e alla progettazione nel campo della forma
e della funzione. In queste strutture, secondo me, è ancora possibile, ancorchè
molto difficile, riprendere le fila di una cultura troncata, di un nuovo
Bauhaus. Dopo aver individuato la latente invariante che si potrebbe aggiungere
direttamente a quelle zeviane e alle mie, e cioè la deperibilità, mi sono
accorto che fra i due insiemi di invarianti che ho dianzi esposto (le
invarianti individuate da Bruno Zevi e quelle individuate da me) si è aperto un
canale di comunicazione che permette un interfacciamento che certamente sarà
utile nel prossimo futuro. Mi spiego meglio. Quest’interfacciamento, questa
collaborazione fra i due sistemi di invarianti, le zeviane e le mie, dovrebbe
rendere la “deperibilità” più diluita nel tempo, portando così i tempi di
deperimento molto più vicini a quelli più “naturalmente” lenti della cosiddetta
architettura classica. Come? Innanzi tutto dedicando propedeuticamente buona
parte della didattica dell’architettura all’individuazione delle cinque
invarianti da me individuate e alla conseguente ricerca del massimo di
soluzioni possibili. Dal punto di vista della didattica, gli esempi che via via
si accumuleranno nei database delle soluzioni formali, che saranno aggiornati
in continuazione, implementeranno con continuità un certo tipo di casistica che
sarà di grande utilità per gli studenti. Contemporaneamente gli studenti
studieranno come le mie cinque invarianti possano essere individuate,
leggendone le soluzioni, anche quando l’architettura parlava latino e
greco. I futuri architetti, dovranno quindi parlare architettura e, contemporaneamente,
parlare “di” architettura.
Aggredire questi due campi contemporaneamente
non rappresenta assolutamente la formula della felicità, ma mette gli
interessati di fronte a problemi reali, allo studio di interessanti soluzioni
nel campo dell’architettura non contemporanea e a ipotesi di lavoro nel
campo dell’architettura/progettazione contemporanea. Tutto ciò
significherebbe ridare il giusto posto al rigore analitico e a quello
propositivo, che negli ultimi decenni è stato sostituito da colpevolissime
leggerezza e fiducie varie, leggerezze e fiducie riposte in errate concezioni
delle creatività individuali degli studenti, creatività individuali, che, senza
leggi, rigore e meccanismi di approccio, non fanno altro che riportare il tutto
indietro nel tempo, avvicinandolo a una inesistente e dannosissima forma di
presunte “ingenuità e freschezze” compositive, finte ingenuità e finte
freschezze che hanno fatto più danni di una guerra.
Se tutto
ciò dovesse accadere, penso che il Bauhaus brutalmente troncato potrebbe
riprendere il suo cammino, e che la frattura si potrebbe ricomporre per cui,
dal punto di vista della didattica, il cerchio si chiuderebbe. E, sopra ogni
cosa, la tredicesima invariante, cioè la rapida deperibilità dell’architettura
moderna, assumerebbe tempi più corretti e più naturali, svanendo quindi
dolcemente nel “naturale” trascorrere del tempo dell’architettura stessa.
L’architettura contemporanea, non ha assolutamente bisogno della eventuale
tredicesima invariante.
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