sabato 18 ottobre 2014

LE INVARIANTI SECONDO FALANGA


Esposizione completa della teoria delle invarianti  

 

Per comodità dei lettori esporrò qui di seguito la teoria delle invarianti individuate da chi sta scrivendo e subito dopo si troverà la teoria di quelle individuate primariamente da Bruno Zevi.

 

ALCUNE NOTE ILLUSTRATIVE SU UN TENTATIVO DI SPOSTARE UNA MANIERA DI PENSARE L'ARCHITETTURA VERSO LA LOGICA. franz falanga

 

PREMESSA

      Fra tutte le esperienze didattiche nelle facoltà di Architettura italiane circa la possibilità di impostare un metodo (o vari metodi) di progettazione, una delle proposizioni più radicate e più estese è quella che ritiene possibile il poter insegnare tutto o quasi tutto, tranne la progettazione medesima. Ricercare il perché di questo modo di pensare così comune (che in qualche caso ha rappresentato un alibi nella cultura della didattica architettonica italiana) non è negli intendimenti specifici di questa memoria. Giova qui ricordare brevemente che, mentre sulla suddetta presunta impossibilità si sono versati fiumi di inchiostro, spesso, inspiegabilmente, argomentazioni di segno diverso hanno segnato il passo.

      Non parlerò qui degli architetti che hanno fondato la propria poetica sulla forza senza limiti della ragione; il desiderio di partire dalla utilizzazione corretta e, sopra ogni cosa, logica di quanto è stato fatto finora e si continuerà a fare nell'Architettura, ecco, questa è la base di partenza delle considerazioni e delle proposte che seguiranno.

 

CONSIDERAZIONI INIZIALI

      Si parte da due dati di fatto:

A) L'esistenza sulla faccia della terra di una miriade di oggetti concepiti e costruiti dall'uomo, molti dei quali saldamente «ancorati» al terreno e perciò difficilmente spostabili sopra il tavolo da disegno dell'architetto o dello studente architetto.

B) Un numero enorme di pubblicazioni sull'Architettura comprendenti disegni, fotografie ed una quantità immensa di parole organizzate tra loro molto variamente.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           

      Quindi, due universi artificiali:

1) L'Architettura costruita

2) L'Architettura disegnata e/o scritta o storia della medesima

 

ENUNCIAZIONE DEL PROBLEMA

      Mi chiedo:

come è possibile, se è possibile, utilizzando codesti due universi, impostare un metodo per cominciare a:

1) “parlare Architettura”?

2) “parlare “di” Architettura”?

 

IMPOSTAZIONE DEL PROBLEMA

      Si consideri dunque che, al di fuori del tempo e di qualsivoglia temperie culturale, l'architetto, pur sottostando a condizionamenti diversi e pur trovandosi in continua evoluzione, in alcuni particolari passaggi del suo iter progettuale si è sempre trovato di fronte a certe situazioni che nel tempo non sono mai cambiate.

       Mi spiego meglio: la progettazione di un oggetto qualunque (non interessano le dimensioni) è paragonabile ad un'articolata organizzazione di materiali e forme.

      Bene, all'interno di codesta organizzazione, comunque complessa, vi sono dei momenti molto particolari della progettazione  che sono rimasti invariati nel tempo e che si elencano qui di seguito:

                                                                                                                                                                                                                        

1) Unione di materiali diversi aventi stessa direzione e verso differente.

2) Mutamenti di direzione di due materiali diversi.

3) Mutamenti di direzione di un solo materiale.

4) Termine di un materiale qualunque.

5) Trattamento dei vuoti con lo stesso materiale ai bordi.

 

A questo punto abbiamo sul tavolo due insiemi di materiali e cioè:

 

A) Una organizzazione comunque complessa

B) Le cinque situazioni invariate nel tempo

 

Consideriamo adesso la organizzazione comunque complessa di cui sopra come un insieme e le situazioni invariate nel tempo come alcuni degli elementi dell'insieme.

      Nel medesimo istante in cui abbiamo inaugurato due termini appartenenti al linguaggio matematico e cioè insieme ed elementi dell'insieme, il trasferimento del problema da un'area concettuale ad un'area appartenente alla logica matematica appare inevitabile. Va subito detto che il termine inevitabile è stato usato alla luce delle seguenti considerazioni:

 

1a considerazione: «Se un argomento qualsiasi viene presentato in maniera tale che esso consista di simboli e di precise regole di operazioni su questi simboli, le quali siano soggette soltanto alla condizione di presentare una coerenza interna, tale argomento fa parte della matematica». C. Boyer quando mostra questo concetto importante espresso nella «The Mathematical Analysis of Logic» di George Boole (1847).

 

2a considerazione: «La matematica può essere paragonata ad un mulino di squisita fattura che macina materiali di qualsiasi grado di finezza; ma, nondimeno, ciò che se ne ricava dipende da ciò che vi si mette dentro; e come il più grande mulino del mondo non estrarrà farina da bucce di piselli, così pagine e pagine di formule non produrranno nessun risultato preciso a partire da dati sconnessi». T.H. Huxley (1825-1895).

 

3a considerazione: Nel 1872 Georg Cantor definisce un insieme come “L'unione in un tutto di oggetti del nostro intuito o del nostro pensiero, ben determinati e differenziabili gli uni dagli altri”.

 

4a considerazione: “La matematica pura è la classe di tutte le proposizioni aventi la forma “p implica q” dove “p” e “q” sono proposizioni contenenti una o più variabili, le quali sono le stesse in entrambe le proposizioni, e nè “p” nè “q” contengono alcuna costante ad eccezione delle costanti logiche”. Bertrand Russell “Principles of Mathematics” 1903.

 

5a considerazione: Nella prima edizione del 1939 della “Théorie des ensembles”, Nicolas Bourbaki scrive: “Un insieme è formato di elementi che godono di certe proprietà e che hanno certe relazioni fra loro o con elementi di altri insiemi”.

 

6a considerazione: Nel 1950 N. Bourbaki in “The Architecture of Mathematics”, American Mathematical Monthly, scrive: “Dal punto di vista assiomatico, la matematica si presenta così come un deposito di forme astratte: le strutture matematiche; ed accade così, senza che ne sappiamo il perché, che certi aspetti della realtà empirica si adattino a queste forme, quasi in virtù di una sorta di predisposizione».

 

7a considerazione: Nel 1950 Andrè Weil in “The future of Mathematics”, American Mathematical Monthly, scrive: “È attraverso inattesi accostamenti... che il matematico del futuro imposterà in maniera nuova e risolverà i problemi che gli avremo lasciato in eredità».

 

 

 

 

NUOVA IMPOSTAZIONE

 

Adattiamo ora i termini empirici del nostro problema alle strutture matematiche, tenendo presente:

1) che αxβ          si legge “hanno la stessa direzione e verso differente”

2) che α,β    si legge “hanno direzioni diverse ma versi congruenti in P”

3) che α   si legge “cambia direzione”

4) che α >          si legge “termina comunque”

5) che α > <α    si legge “quando ai bordi c'è lo stesso materiale”

6) che α Є A     si legge “l'elemento α appartiene all'insieme A”

7) che B   A    si legge “B un sottoinsieme di A”

8) che α ∩ β      si legge “ α e β sono uniti fra loro ”

9) che w.           si legge “when” = quando

10) che ¿P       si legge “QUANTE E QUALI SOLUZIONI sono state, o saranno utilizzate in      P?”

 


CASO n. 1


Sia A un insieme eterogeneo naturale o artificiale e siano α e β due elementi dell’ insieme

(1) α Є A 

     β Є A 

Vi sia, inoltre, la condizione necessaria e sufficiente che α e β siano, comunque, in qualunque rapporto fra loro in una zona/punto di passaggio detto P

(2) P = α ∩ β  =  β ∩ α 

Vi sia, ancora, la condizione necessaria e sufficiente che nel suddetto rapporto/punto di passaggio fra α e β   sia necessariamente utilizzata una soluzione qualunque, purché utile al rapporto diretto fra α e β. Orbene

(3) w. α ≠ β 

e quando  α e  β  hanno la stessa direzione ma verso differente e cioè

(4) w. Αxβ

QUANTE E QUALI SOLUZIONI sono state, o saranno, utilizzate in P?

e cioè     

(5) ¿P

 

 

CASO n. 2


Sia A un insieme eterogeneo naturale o artificiale e siano α e β due elementi dell’insieme

(1) α Є A 

     β Є A 

Vi sia, inoltre, la condizione necessaria e sufficiente che α e β siano, comunque, in qualunque rapporto fra loro in una zona/punto di passaggio detto P

(2) P = α ∩ β  =  β ∩ α 

Vi sia, ancora, la condizione necessaria e sufficiente che nel suddetto rapporto/punto di passaggio fra α e β    sia necessariamente utilizzata una soluzione qualunque purchè utile al rapporto diretto fra α e β .

Orbene

(3) w. α ≠ β 
e quando α e  β hanno direzioni diverse ma versi congruenti in P

e cioè

(4) w. α,β                   

QUANTE E QUALI SOLUZIONI sono state, o saranno, utilizzate in P?

e cioè

(5) ¿P

 


CASO n. 3


Sia A un insieme eterogeneo naturale o artificiale e sia α un elemento dell’insieme

(1) α Є A 

quando in una zona/punto P  α cambia direzione

e cioè

(2) w. α 

QUANTE E QUALI SOLUZIONI sono state, o saranno, utilizzate in P?

e cioè

(3) ¿P

 


CASO n. 4


Sia A un insieme eterogeneo naturale o artificiale e sia α un elemento dell’insieme

(1) α Є A 

Quando α comunque termina in una zona/punto P

(2) w. α >

QUANTE E QUALI SOLUZIONI sono state, o saranno, utilizzate in P?

e cioè

(3) ¿P

 


CASO n. 5


Sia A un insieme eterogeneo naturale o artificiale e sia α un elemento dell'insieme

(1) α Є A 

Vi sia ancora un sottoinsieme B omogeneo e vuoto contenuto in A

(2) B   A             

Quando B è completamente circondato da α

e cioè

(3) w. α > <α

e quando α comunque termina in una zona/punto P

e cioè

4) w. α >

QUANTE E QUALI SOLUZIONI sono state, o saranno, utilizzate in P?

e cioè

(5) ¿P

 

 

ANNOTAZIONI FINALI

 

      Per fini didattici e per un ulteriore maggiore chiarimento per chi legge, vale la pena ricordare che le cinque situazioni che sono rimaste invariate nel tempo possono essere così riscritte, con l’aggiunta di considerazioni strumentali:

 

Studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui due materiali diversi sono in contatto fra loro, avendo stessa direzione e verso differente.

Studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui due materiali diversi sono in contatto fra loro, avendo due direzioni diverse e confluendo nello stesso punto.

Studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui un unico materiale cambia direzione.

Studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui un materiale termina.

Studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui termina un materiale, inizia un vuoto e subito dopo il vuoto ri-inizia lo stesso materiale.

 

      Chiarisco meglio:

 

PRIMA INVARIANTE.  In che modo (sia dal punto di vista formale che da quello strutturale) è stato risolto (nel caso dell’analisi storica) o si deve risolvere (nel caso della progettazione) l'accoppiamento/giunzione/interfacciamento di due materiali diversi aventi la stessa direzione e verso opposto.

 

SECONDA INVARIANTE. In che modo (sia dal punto di vista formale che da quello strutturale) è stato risolto (nel caso dell’analisi storica) o si deve risolvere (nel caso della progettazione) l'accoppiamento/giunzione/interfacciamento di due materiali diversi aventi due direzioni diverse.

 

TERZA INVARIANTE. In che modo (sia dal punto di vista formale che da quello strutturale) è stata risolta (nel caso dell’analisi storica) o si deve risolvere (nel caso della progettazione) la variazione di direzione dello stesso materiale.

 

QUARTA INVARIANTE. In che modo (sia dal punto di vista formale che da quello strutturale) è stato risolto (nel caso dell’analisi storica) o si deve risolvere (nel caso della progettazione) il trattamento del materiale una volta giunti al termine/conclusione del materiale stesso.

 

QUINTA INVARIANTE. In che modo (sia dal punto di vista formale che da quello strutturale) è stato risolto (nel caso dell’analisi storica) o si deve risolvere (nel caso della progettazione) il trattamento al contorno di un’apertura nello stesso materiale

      Chiarendo ulteriormente:

 

Nella prima invariante ci troviamo in presenza dell’unione di due materiali diversi sullo stesso piano

Nella seconda invariante ci troviamo in presenza dell'unione di due materiali diversi non complanari fra loro e provenienti da versi diversi. Chiamiamole per comodità soluzioni d’angolo.

Nella terza invariante ci troviamo in presenza delle soluzioni d'angolo che utilizzano lo stesso materiale.

Nella quarta invariante ci troviamo in presenza del come far terminare un materiale qualsivoglia.

Nella quinta  invariante abbiamo sotto gli occhi la soluzione delle bucature.

 

      Insisto sul fatto che queste invarianti (cioè questi momenti particolari della progettazione o dell’analisi del costruito) siano momenti fondamentali in cui il progettista sempre si è imbattuto, sempre si imbatte e sempre si imbatterà in tutti i campi dell’attività creativa, a qualunque latitudine e a qualunque momento storico il progettista medesimo appartenga. A tutto ciò aggiungo che il numero di queste invarianti può essere certamente incrementato. Sono infatti assolutamente convinto che, approfondendo sempre più lo studio di questo argomento, altre invarianti possano essere ulteriormente  individuate, a condizione però che non contraddicano le precedenti. In questo sono d’accordo totalmente con Bruno Zevi.

 

      Dopo aver elencato queste particolari invarianti, ne discende subito, conseguentemente, la messa in discussione della maniera usata finora di fotografare  i manufatti e i prodotti dell'ingegno. Infatti, nei libri dove l'architettura e gli oggetti di design sono fotografati in modo convenzionale, ancorchè gradevole, non essendo queste invarianti "scientemente" individuate, avremo delle immagini fotografiche del manufatto ovviamente carenti delle informazioni necessarie e sufficienti a una migliore e più razionale “lettura” fotografica del manufatto stesso. Questa generale mancanza dei particolari delle invarianti nelle foto a mio avviso toglie buona parte dell’utilità ai libri fotografici finora pubblicati. Nel migliore dei casi si ha un’idea di massima dei manufatti. Vero è che se avessimo i disegni e i particolari costruttivi sapremmo dove guardare. Ma, lo ripeto, sto parlando dei libri fotografici dedicati all’architettura e al design, sto insomma parlando dei libri nei quali gli oggetti architettonici e gli oggetti di design sono evidenziati e raccontati “soltanto” attraverso fotografie. Molti di questi libri di architettura e di design sono usati stancamente per la didattica. Penso con grande attenzione ed interesse alla grande riscoperta dell’utilità nel campo dello studio della storia dell’architettura e del design e, contemporaneamente, nel campo delle rispettive  didattiche, al giorno in cui i nuovi libri fotografici racconteranno per immagini questi momenti invarianti. Una tale lettura sempre più specialistica delle discipline formali che aumenterebbe di molto il rigore che è assolutamente necessario alla migliore comprensione del fenomeno, salvando ovviamente tutte le altre componenti culturali e misteriose che insistono su un progetto e su un manufatto architettonico o di design. Invito chiunque stia leggendo queste note a prefigurarsi un libro fotografico, per esempio sulle architetture di Gino Valle, di Ignazio Gardella, di Giuseppe Samonà, in cui fossero evidenziate fotograficamente tutte le invarianti di cui stiamo parlando. Il libro avrebbe ben altre suggestioni e ben altro interesse per gli specialisti.

 

      Avvertenza importante. Fin qui ho utilizzato spesso il termine “forma”. Ho usato questo termine nell’accezione più larga possibile, nel senso che la mia teoria è adattabile sia alle soluzioni dove la forma è priva della mera utilità funzionale, vedi le forme dell’universo creativo nel quale si muovono i cosiddetti artisti, quelli che preferisco chiamare creativi, sia alle soluzioni dove la forma è strettamente collegata alla propria funzione, vedi architettura, design. E’ assolutamente ovvio che non esistono forme “senza” una loro funzione, ma mi premeva fare questa distinzione,  per ribadire che, solo per comodità di metodo, ho preferito dividere le forme in quelle che appartengono al campo della “utilitas” di vitruviana memoria e a quelle che appartengono ad altri tipi di “utilitas”.

 

      Propongo quindi, dopo aver molto schematicamente espresso la mia personale visione del problema (della quale schematicità peraltro mi scuso), un modo assolutamente iniziale e propedeutico dal punto di vista didattico di “osservare” un oggetto architettonico utilizzando un’invariante di quelle da me individuate per tentare di iniziare a progettare una forma. Vi esporrò adesso due esercitazioni che facevo eseguire dai miei studenti delle Accademie di belle arti di Bari e di Venezia. Con esiti parecchio interessanti.

      Per comodità di lettura chiamerò queste due proposte/esercitazioni “Ipotesi A” e “Ipotesi B”, considerandole null’altro che un micro esempio di ipotesi di lavoro, pur essendo assolutamente propedeutiche alla comprensione,  all’analisi e, ovviamente,  alla progettazione di una forma, a qualsiasi categoria essa dovesse appartenere.

 

      Ipotesi A. Dopo aver esposto con ricchezza di particolari e con chiarezza l’assunto di partenza (sto parlando delle invarianti), dico agli allievi del corso di iniziare a fotografare alcune di queste cinque invarianti utilizzando la città che ogni studente ha facilmente sottomano, non importa se centro storico o quartiere residenziale o periferico. Per evitare inutili affastellamenti prendiamo inizialmente in esame le soluzioni d’angolo dove esiste un unico materiale (mia invariante numero 3). Avremo così in pochi giorni un abbondante repertorio di soluzioni d’angolo di tutti i tipi e risalenti a varie epoche. Osservando in gruppo queste fotografie con molta attenzione ci troveremmo in presenza di un importante elenco di soluzioni di tutti i tipi che daranno adito a prime considerazioni sui casi analizzati. Va subito detto che dal punto di vista meramente didattico, una soluzione d’angolo di Mies è altrettanto emblematica e importante di una soluzione d’angolo eseguita dall’architetto XYZ o di una soluzione d’angolo eseguita da un ignoto maestro muratore del settecento o contemporaneo. Va ancora detto che sono utili per la didattica sia le soluzioni “pensate” che le soluzioni “non” pensate, anche quelle eseguite in modo abborracciato. Addirittura in certe soluzioni banali e scontate si potranno trovare stimoli molto interessanti.

      Inizieremo quindi ad analizzare criticamente le varie soluzioni fotografate, facendo notare come quelle “pensate” conducano a risultati formali e statici generalmente importanti, mentre le soluzioni banali portano a risultati che dal punto di vista meramente architettonico e statico generalmente pochissimo hanno da dire. Resta comunque il fatto che, come dianzi detto, anche in un lavoro eseguito in modo banale e scadente si possono individuare stimoli e suggerimenti, che, anche se presi per i capelli, possono portare lontano. Anche se chi ha eseguito il lavoro certamente non aveva idea degli eventuali sviluppi futuri che avrebbe potuto avere il suo manufatto. Come si può immaginare una esercitazione del genere può portare a sviluppi molto intriganti e interessanti. Queste particolari soluzioni d’angolo, una volta giunte sul tavolo da disegno, saranno dunque, dopo essere state  inizialmente fotografate,  rilevate e disegnate correttamente utilizzando i normali sistemi della proiezioni ortogonali, ottenendo così una serie di sezioni e viste frontali e laterali.     

      Queste particolari fotografie iniziali, con le rispettive restituzioni geometriche, dovrebbero essere depositate, con relative annotazioni e suggerimenti a margine, in un database dedicato,  e saranno quindi evidentemente messe a disposizione di chiunque. Si inizierà così ad avere, dopo qualche tempo, moltissime soluzioni dello stesso problema e, contemporaneamente ci accorgeremmo che, pur essendo in presenza di una sola invariante, le soluzioni saranno certamente infinite. Inizierà così a farsi strada fra gli studenti il convincimento che il problema “invariante” esiste e non è evitabile per nessuna ragione, ma che le sue soluzioni possono essere infinite.

 

      Ipotesi B. In questa seconda ipotesi di lavoro, verrà invece chiesto agli studenti di fotografare qualche altro esempio della invariante numero 3, premettendo loro che le foto ottenute ci serviranno come “suggerimento” per una nuova forma che noi dovremo in seguito “manipolare” tenendo presenti le caratteristiche formali e strutturali di quanto è stato fotografato. Una volta fotografato l’episodio formale di partenza, ne sarà fatta la solita restituzione (rilievo e disegno) in termini geometrici e in proiezioni ortogonali  (pianta, sezioni varie e varie viste di fronte) e si inizierà quindi a manipolare la forma ottenuta combinando le forme già esistenti in nuove combinazioni, ottenendo così delle nuove forme che, a loro volta, potranno essere ulteriormente manipolate continuando ad usare lo stesso sistema di combinazioni. Uno studente di scultura, per esempio, ha tratto degli interessanti suggerimenti formali per una sua scultura, lavorando su una soluzione d’angolo veneziana e databile nel rinascimento. Una delle caratteristiche fondamentali del creativo è indubbiamente l’attenta osservazione dell’esistente, osservazione che, quando è articolata con rigore, oltre che con passione, permette la nascita di un’infinità di stimoli. Insomma l’esercitazione consiste in una continua manipolazione della forma partendo dallo studio di forme di cui conosciamo già le leggi generatrici, sia formali che costruttive.

      Lavorando con pazienza e con continuità si otterrà così una crescita ad albero  di stimoli e suggerimenti per nuove vie da esplorare. Da uno stimolo ne discendono altri e così via. Fin qui la mia teoria sulle invarianti.

 

      A questo punto scatta l’operazione di mettere insieme le invarianti da me individuato e di cui ho parlato dianzi con quelle individuate da Bruno Zevi. 

      Nel 1973 Bruno Zevi nel suo libro “Il linguaggio moderno dell’architettura” edito da Einaudi, a pagina 9 e segg. così scriveva:

      Nel 1964 John Summerson pubblicò un saggio intitolato The Classical Language of Architecture, successivamente tradotto in varie lingue. Ho atteso per un decennio il suo naturale, indispensabile complemento: The Anti-Classical Language of Architecture o, meglio, The Modern Language of Architecture, ma né Summerson né altri lo ha scritto. Per quali motivi? Se ne intuiscono molteplici, paralizzanti. Tuttavia la lacuna va colmata: è un compito improrogabile, il più urgente per la cultura storico-critica; siamo già in estremo ritardo.

      Senza una lingua non si parla. Anzi, come è noto, “la lingua ci parla” nel senso che offre strumenti comunicativi in mancanza dei quali l’elaborazione stessa dei pensieri sarebbe preclusa. Ebbene, nel corso dei secoli, una sola lingua architettonica è stata codificata, quella del classicismo. Tutte le altre, sottratte al processo riduttivo necessario per diventar lingue, sono state considerate eccezioni alla regola classica e non alternative dotate di lingua autonoma. Anche l’architettura moderna, sorta in polemica antitesi al neoclassicismo, se non viene strutturata in lingua, rischia di regredire, una volta esaurito il ciclo dell’avanguardia, ai frusti archetipi Beaux-Arts.

      Situazione incredibile assurda. Stiamo dilapidando un colossale patrimonio espressivo perché eludiamo la responsabilità di precisarlo e renderlo più trasmissibile (Notare la straordinaria fondatezza di questa previsione di Zevi a quasi quaranta anni di distanza! Pongo, con particolare passione, l’accento su tre parole fondamentali: responsabilità, precisarlo e trasmissibile. Nota di falanga). Tra poco, forse, non sapremo più parlare architettura; in realtà, la maggioranza di coloro che progettano e costruiscono oggi, biascica, emette suoni inarticolati, privi di significato, non veicola alcun messaggio, ignora i mezzi per dire, quindi non dice e non ha niente da dire. Pericolo anche più grave: esautorato il movimento moderno, non saremo più in grado di leggere le immagini di tutti gli architetti che hanno parlato una lingua diversa dal classicismo, i paleolitici, i maestri tardo antichi e medioevali, i manieristi e Michelangelo, Borromini, le figure Arts and Crafts e Art Nouveau, Wright, Loos, Le Corbusier, Gropius, Mies, Alto, Sharoun, i giovani da Johansen a Safdie.

      Oggi nessuno adopera gli ordini classici. Ma il classicismo è una forma mentis che travalica gli “ordini”, riuscendo a congelare anche i discorsi svolti con parole e verbi anticlassici. Il sistema Beaux-Arts infatti codificò il gotico, poi i romanico, il barocco, l’egizio, il nipponico e, ultimo, persino il moderno con un espediente semplicissimo: ibernandoli, cioè classicizzandoli. Del resto, qualora si dimostrasse impossibile codificare in senso dinamico il linguaggio moderno, non resterebbe che questa soluzione suicida, già invocata da alcuni sciagurati, critici e/o architetti. (Altro che alcuni, la quasi totalità! Nota di falanga).

      Occorre dunque sperimentare, subito, senza velleità di risolvere a priori, cioè fuori di concrete verifiche, tutti i problemi teoretici il cui studio costituisce spesso un alibi per ulteriori dilazioni. Decine di libri e centinaia di saggi discutono se l’architettura possa essere assimilata a una lingua, se i linguaggi non verbali abbiano o meno una doppia articolazione, se il proposito di codificare l’architettura moderna non sia destinato a sfociare nell’arresto del suo sviluppo. L’indagine semiologica è fondamentale, ma non possiamo pretendere che dipani, fuori dall’architettura, i problemi architettonici. Bene o male, gli architetti comunicano; parlano architettura, sia o no una lingua. Dobbiamo documentare con esattezza cosa implichi parlare architettura in chiave anticlassica; se riusciamo, l’apparato teoretico verrà da sé, inerente allo stesso scavo linguistico.

      Migliaia di architetti e studenti architetti progettano, ma disconoscendo il lessico, la grammatica e la sintassi del linguaggio moderno che, rispetto al classicismo, sono l’antilessico, l’antigrammatica e l’antisintassi. I critici, al duplice livello professionale e didattico, giudicano: con quali criteri? Con quale legittimità in mancanza di essi? Ecco la sfida che ci fronteggia, produttori ed utenti. Per capirci, bisogna usare una stessa lingua, concordandone termini e procedure. Tema che appare gigantesco solo perché fin qui inesplorato. (Anche qui la lucidità e il rigore di Bruno Zevi si appalesano con grande leggerezza e lucidità. Nota di Falanga).

      Obiettivo volutamente provocatorio: fissare una serie di “invarianti” dell’architettura moderna, sulla base dei testi più significativi e paradigmatici. Un dubbio: mentre nella lingua verbale il codice è imprescindibile, pena la non comunicazione, in architettura chiunque può farlo saltare a piacere, senza per questo rinunciare a costruire. Certo, può costruire, perfino in stile babilonese se vuole, ma non comunicando altro che le proprie nevrosi. (Più chiaro di così. Nota di Falanga). Ho discusso l’argomento della linguistica architettonica con docenti universitari e professionisti, soprattutto con studenti inquieti, confusi, esacerbati dalla circostanza che nessuno insegna loro una lingua con cui parlare. (Quante volte nel corso della mia vita universitaria ho sentito dire: tutto si può insegnare tranne che a progettare. Nota di Falanga). Da questi scambi è emersa una conclusione: malgrado vi siano ottime ragioni per non aggredire un tema così difficile e traumatico, bisogna superare l'impasse e cominciare.

      Il presente saggio è anche più breve di quello, già succinto, di Summerson. Analizza soltanto sette invarianti. Se ne possono aggiungere altre dieci, venti o cinquanta; a condizione però che non contraddicano le precedenti. La validità di questo approccio va collaudata sulle opere e sui tavoli da disegno. Ognuno può esercitarsi nella verifica di questa “basic language”. E non si meravigli scoprendo che, su cento edifici costruiti oggi, novanta sono del tutto anacronistici, databili tra il, Rinascimento e il mondo Beaux-Arts, otto contengono in modo incoerente qualche elemento lessicale moderno e due, nel caso migliore, sgrammaticano, quindi non parlano la vecchia lingua, ma neppure la nuova. V’è di più: persino i grandi maestri del movimento moderno, come si vedrà, hanno prodotto talora opere retrograde, classiciste. Sicché viene da chiedersi: che lingua è questa, se nessuno o pochissimi la parlano? Si risponde con un altro interrogativo: potrebbe essere più diffusa, senza elaborane il codice?

      Questo lavoro ha l’ambizione di ogni atto eretico: suscitare il dissenso. Se innescherà uno scontro, avrà raggiunto lo scopo: anziché parlare sino al tedio di architettura, finalmente parleremo architettura.

 

      E’ valsa la pena riportare questa premessa che Zevi scrisse diversi decenni fa nel 1973, all’inizio del suo libro. Se soltanto qualche giovane architetto oggi leggesse con attenzione questo aureo libro di Zevi ne trarrebbe gran beneficio, facendo trarre gran beneficio anche alla comunità nella quale dovesse operare. Leggendo oggi, all’inizio del secondo decennio del duemila, “Il linguaggio moderno dell’architettura” alla luce di quanto scritto e alla luce di oltre sessanta anni di storia italiana dell’architettura e dell’urbanistica nei quali si è praticamente compiuta malinconicamente la devastazione praticamente totale del territorio, vengono al pettine tutte le carenze amministrative, le pigrizie culturali, le colpevoli assenze in campo universitario, che, combinandosi perfettamente fra loro, hanno prodotto la miserabile rovina del territorio medesimo. Un esempio valga per tutto quanto detto finora. Nelle commissioni edilizie, dove, come si sa, si chiede il parere degli “esperti” sulla giustezza, in tutti sensi, del manufatto in esame, quali sono stati in questi anni i criteri di valutazione usati? I più assurdi, i più fantasiosi, i più improbabili, in ogni caso una base comune di giudizio non è mai ahimè esistita.

 

      Prendendo per buono il suggerimento di Bruno Zevi: “se ne possono aggiungere altre dieci, venti o cinquanta” (di invarianti. Nota di falanga) provo dunque ad aggiungere le mie cinque invarianti alle sue sette, precisando però che, mentre le invarianti zeviane si riferiscono al linguaggio moderno dell’architettura, le invarianti che ho individuato e che leggerete qui di seguito (sono elencate subito dopo quelle individuate da Bruno Zevi) appartengono sia all’architettura classica che a quella contemporanea, sia all’architettura prima dell’uso del cemento armato che a quella venuta in seguito e nella quale si usava il cemento armato. Appartengono cioè alla progettazione tout court, indipendentemente dal periodo temporale in cui la progettazione è avvenuta.

      Ed ecco dunque l’elenco aggiornato, con la fondata convinzione che possa essere ulteriormente allungato:

 

Prima invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: l’elenco delle funzioni edilizie in una villa di Edwin Lutyens costruita in Inghilterra (1902).

 

Seconda invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: asimmetria e dissonanze nella casa del direttore del Bauhaus a Dessau, progettata da Walter Gropius nel 1925/26.

 

Terza invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: tridimensionalità antiprospettica nella casa Sternefeld a Berlino, progettata da Erich Mendelsohn nel periodo espressionista (1923).

 

Quarta invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: sintassi della scomposizione quadridimensionale nel disegno Filmmoment di Hans Richter, membro del gruppo De Stijl (1923). 

 

Quinta invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: strutture in aggetto, gusci e membrane nelle tende plastiche del padiglione progettato da Frei Otto all’Expo di Montreal 1967.

 

Sesta invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: temporalità dello spazio nella spirale continua del Guggenheim Museum a New York progettato da F.L.Wright nel 1946-59.

 

Settima ed ultima invariante zeviana del linguaggio moderno dell’architettura: reintegrazione edificio-città-territorio nel Mummers Theater a Oklahoma City, progettato da John Johansen nel 1971.

 

Ottava invariante F (franz falanga) del linguaggio dell’architettura, indipendentemente  dal periodo temporale: studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui due materiali diversi siano in contatto fra loro, avendo stessa direzione e verso differente.

 

Nona invariante F (franz falanga) del linguaggio dell’architettura, indipendentemente  dal periodo temporale: studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui due materiali diversi siano in contatto fra loro, avendo due  direzioni diverse e confluendo nello stesso punto.

 

Decima invariante F (franz falanga) del linguaggio dell’architettura, indipendentemente  dal periodo temporale: studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui un unico materiale cambi direzione.

 

Undicesima  invariante F (franz falanga) del linguaggio dell’architettura, indipendentemente dal periodo temporale: studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui un materiale termini.

 

Dodicesima invariante  F (franz falanga) del linguaggio dell’architettura, indipendentemente  dal periodo temporale: studiare come è stato risolto strutturalmente e/o formalmente, o come si può risolvere, il caso in cui dovesse terminare un materiale, iniziasse un vuoto e subito dopo ri-iniziasse quindi  lo stesso materiale.

 

          Se analizzassimo, ad esempio, la decima invariante, quella in cui un materiale cambia direzione, noteremmo subito, come dianzi ho detto,  che ci troviamo in presenza della soluzione d'angolo. Come ci comporteremo noi o come si sono comportati gli altri progettisti, in qualsiasi epoca e in qualsiasi punto della terra, il momento in cui hanno dovuto far cambiare direzione allo stesso materiale? Si badi bene che questo momento esiste sia nel caso in cui è necessario far deviare dal proprio percorso una comunissima traccia di grafite ottenuta facendo muovere sul foglio di carta un bastoncino di grafite a sezione quadrata, o una normalissima matita, oppure una pastiglia di grafite a sezione trapezoidale, sia nel caso in cui a doversi piegare (o voltare) è un muro in mattoni, o in tufi, o in granito, alto trenta metri, o un profilato a T a U a L, o un tubo a sezione circolare, o una casa a schiera, e così via di seguito.     

       Se invece prendiamo in considerazione l’ottava invariante, quella in cui dobbiamo mettere in contatto due materiali diversi noteremo, altrettanto immediatamente, che ci troviamo in presenza del complesso problema di rendere interfacciabili due materiali completamente diversi fra loro. Anche questo momento particolare è riscontrabile sia nel caso in cui il progettista sia un architetto, un designer, un orafo, un sarto, un qualsivoglia creativo. Se si esamineranno con attenzione le soluzioni individuate analizzando per esempio l’unione di vetro e calcestruzzo, oppure di legno e pietra, oppure di laminato plastico e alluminio, oppure di oro e argento, o di stoffa e cuoio, ci accorgeremmo che è esattamente in questi particolari che vien fuori la maestria o la banalità dei progettisti nel risolvere il problema.

      L'aver dunque individuato la presenza di queste invarianti ci permette di guardare in modo più attento e molto più rigoroso a tutte le varie soluzioni che siano state trovate al problema, in qualsiasi tempo e luogo, dai rispettivi progettisti. Nel caso invece  di una progettazione ex novo, la consapevolezza della inevitabile comparsa sulla scena del progetto di queste invarianti ci dice che abbiamo costantemente degli appuntamenti fissi con problemi formali e funzionali che non dovranno assolutamente essere saltati a piè pari, che non si possono tranquillamente eludere, ma che, al contrario, andranno affrontati e risolti senza cadere in soluzioni banali, ovvie, o addirittura in non soluzioni. Quest’ultimo caso è il peggiore, è cioè il caso in cui, quando codesti momenti topici si dovessero appalesare, basterà ignorarli. Uno dei lati coinvolgenti di questo mio lavoro fin qui descritto, è che, dopo che questa teoria è nata vivendo l’architettura come mestiere, mi sono reso conto che può essere sperimentata anche nel design, nella pratica letteraria, nella pratica filmica, in ogni campo, insomma, dove la creatività sia la protagonista principale. A meno, ovviamente, dei naturali e rispettivi coefficienti.

      Tornando all’architettura, va da sè che se andassimo a consultare un repertorio di tutte le soluzioni già fatte (e questo repertorio potrebbe essere creato e continuamente aggiornato su un database dedicato), si otterrebbe un notevole vantaggio nella didattica dell'architettura. Se pensiamo poi all'altissimo numero di libri fotografici sull'architettura vedremmo che queste invarianti sono sommerse (oltre che quasi sempre ignorate) da contesti più grandi e da modi di fotografare l'architettura che non servono assolutamente a nulla, tranne che a dare delle belle visioni d'insieme del manufatto. In molte pubblicazioni le invarianti di cui stiamo parlando quasi mai sono state minimamente prese in considerazione da chi ha fotografato le architetture e salta dunque subito all'occhio che il modo con cui sono stati fotografati gli oggetti architettonici forse non è quasi mai stato quello più giusto e più corretto. Infatti, raccontare un'architettura o un oggetto, espressione della creatività di chi l’ha ideato, per mezzo dell'immagine fotografica non serve quasi a niente, evidentemente dal punto di vista della didattica, se non si va ad indagare direttamente su "come" il progettista o i progettisti hanno risolto le invarianti di cui sto parlando.

      Salta quindi all'occhio la quasi completa inutilità di molti libri fotografici sull'Architettura, libri nei quali, salvate le visioni d'assieme e salvati alcuni scorci peraltro più che altro vicini alla ricerca di particolari atmosfere e nulla più, non è assolutamente possibile individuare il comportamento del progettista il momento in cui si è inevitabilmente trovato di fronte alle invarianti in questione. Si pensi alle difficoltà nelle quali ogni storico dell'Architettura (colui il quale parla “di” architettura) si troverà tutte le volte in cui, non potendo porre sul proprio tavolo l'oggetto architettonico in scala reale, sarà costretto ad analizzare l'opera attraverso le fotografie  che non saranno in grado di dargli tutte le informazioni del caso, perchè chi ha fotografato l'opera in questione non è andato a scovare e a fotografare le nostre invarianti non sospettandone l'esistenza e il loro valore assoluto.

       Sono le stesse difficoltà che potrebbe trovare sul proprio cammino anche chi  istituzionalmente "insegna a progettare" cioè a “parlare” architettura.

 

      Sintetizzando tutto quanto detto finora, tornando nella categoria dell’architettura e tentando di fare un primo elenco di osservazioni scaturite dalla lettura delle dodici invarianti è lecito quindi pensare che:

 

1)  se un edificio rivelasse all’esterno le sue funzioni,

 2) se fosse asimmetrico,

3) se avesse una tridimensionalità antiprospettica,

4) se avesse come propria caratteristica la frantumazione dello spazio chiuso scatolare,

5) se venissero usate strutture leggere a guscio, a membrana,

6) se venissero utilizzate tensostrutture,

7) se ci fosse una continuità spazio temporale nell’interno e nei rapporti interno esterno,

8) se esistesse un corretto rapporto formale e funzionale con il territorio,

9) se  materiali diversi fossero messi sapientemente in contatto fra loro,

10) se gli angoli e se i cambiamenti di direzione fossero risolti con maestria e leggerezza, 11) nel caso di un unico materiale, sia nel caso di due materiali,

12) se le bucature fossero trattate con maestria formale e funzionale e con grande senso della tecnologia, 

forse, dico forse, il risultato potrebbe essere quanto meno pensato al meglio e quindi potrebbe diventare un “vero” oggetto di architettura o di design.

 

Sto pensando che una ulteriore invariante potrebbe la Deperibilità dell’Architettura Contemporanea.  Questa potrebbe essere una ulteriore particolarissima invariante, la tredicesima allo stato latente.  A quest’ultima eventuale invariante si aggiungerebbero le due omogeneità, una verso l’alto e l’altra verso il basso. 

 

       N.B. Si è preso come esempio un oggetto architettonico, ma se si fosse preso in esame un mobile o un qualsivoglia oggetto, le considerazioni sarebbero state le stesse. Ogni oggetto ha una sua storia, una sua collocazione, una sua economia e una sua scala rispetto a un territorio, sia esso mentale o fisico, per cui è anche lecito supporre che un oggetto "pensato", possa “forse” dar luogo ad un manufatto con caratteristiche interessanti. Non necessariamente tutto quello che è stato "pensato" ha dato buoni frutti come è ovviamente ovvio che questa maniera di pensare l'architettura non è assolutamente la ricetta per costruire forme di rara finezza e giustezza. E' comunque un modo per dare migliori caratteristiche formali e funzionali alla natura artificiale. Modo che, dati i tempi di pressapochismo e dilettantismo in cui viviamo, andrebbe coltivato con curiosità, impegno e costanza.

 

      Alle dodici invarianti fin qui elencate, come dianzi detto, ho quindi sentito il bisogno di aggiungere una tredicesima ed ultima (per ora) invariante secondo me esistente alla stato latente la Deperibilità dell’Architettura Contemporanea.

      Zevi si augurava che altri architetti potessero aggiungere ulteriori invarianti a quelle che lui aveva direttamente individuato. Giova ancora ricordare ch scriveva lo stesso professor Zevi, un’aggiunta sarebbe stata possibile a patto che non contraddicesse le precedenti. Mi pare corretto dal punto di vista logico.

 

Mentre scrivevo queste note mi sono ulteriormente venute in mente altre considerazioni circa la Deperibilità. Non credo, avendo ci pensato su ancora, che potrebbe essere considerata un’invariante dal punto di vista formale, ciò che comunque  è certamente una caratteristica invariante, perché comunque presente nell’architettura moderna. La chiamerei quindi una caratteristica costante più che una invariante costante. Giova dire che è anche presente allo stato latente nell’architettura classica, ma quello che mi convince ad inserirla fra i momenti invarianti dell’architettura contemnporanea è esclusivamente il fattore temporale.

 

        Va inoltre detto che, mentre nell’architettura classica questa invariante è presente anche se molto, molto, molto diluita nei secoli, nell’architettura moderna (uso l’aggettivo zeviano) al contrario si manifesta con virulenza (è la parola più appropriata) addirittura dopo qualche decennio.

      MI ripeto, sto parlando della “deperibilità” del manufatto architettonico nell’architettura contemporanea. L’architettura contemporanea (qui l’aggettivo è mio) stranamente pare non contemplare l’invecchiamento fra le sue caratteristiche. L’architettura contemporanea ahimè invecchia male e questo fatto la condanna tragicamente. Un precoce invecchiamento dell’architettura contemporanea medesima, caratteristica quasi mai risolta da moltissimi architetti contemporanei, ancorchè prevedibile, è molto più cruento e molto più pacchianamente evidente nell’architettura del XX secolo e degli inizi degli anni duemila, ed è molto più evidente di quanto non lo sia il naturale invecchiamento che invece insiste sull’architettura classica.

     Nella pratica architettonica, da sempre, è logico e naturale che tutto invecchi dal punto di vista formale, mentre è molto più difficoltoso a notarsi, e quindi molto meno evidente, il fatto che tutto invecchi dal punto di vista costruttivo. L’obsolescenza di una forma è fenomeno ricorrente da sempre, mentre l’obsolescenza di un particolare costruttivo, di una struttura, di un intonaco, di un rivestimento quale che sia, è molto più percettibile nell’architettura contemporanea. Secondo me quindi L’architettura contemporanea, dal canto suo, invecchia con minore dignità del resto dell’architettura che l’ha preceduta nei secoli. Insisto nel ripetere che il deperimento, si badi bene, non è un deperimento di tipo formale, ma un deperimento di tipo fisico, nel senso che è visibile ad occhio nudo e viene ahimè percepito come un normale invecchiamento, che assume la caratteristica dell’ineluttabilità. La parola ineluttabilità purtroppo caratterizza fortemente la nostra cultura contemporanea. Le cause di questo deperimento fisico/funzionale sono molteplici, proverò inizialmente ad elencarle.

      Inizialmente al primo posto metterei i materiali. Il calcestruzzo, per esempio, dopo un commensurabile tempo di esistenza, si sgretola in certi punti a causa del ferro contenuto che, non essendo in alcune zone abbastanza protetto, viene attaccato dagli agenti atmosferici producendo conseguenze che tutti abbiamo sotto gli occhi. Il ferro viene anche attaccato da impurità grossolane che spesso si trovano negli inerti.

      Gli intonaci esterni contemporanei, insieme ai vari tipi di rivestimenti anch’essi esterni, hanno delle componenti che non favoriscono la perfetta respirazione delle murature, esterne ed interne, e producono conseguenze che tutti conosciamo. La scomparsa quasi totale del grassello di calce che è stato sostituito da nuovi prodotti simili ma di origine sintetica è un ulteriore momento/causa di deperibilità. Per non parlare poi dei fenomeni degenerativi di certe campiture di colore dovute all’uso di materiali sintetici che reagiscono molto più rapidamente del normale alla luce naturale. aumentando di molto la loro fotosensibilità.

      Potrei continuare, ma mi fermo qui perché, rileggendo queste brevi note mi sono accorto che quando ho usato la frase “al primo posto metterei i materiali” avrei dovuto molto brutalmente riscrivere la frase medesima in altro modo, e cioè: “Al primo posto metterei l’uso sconsiderato dei materiali e il consumismo dilagante”. Allora si evincerebbe molto meglio la malinconica realtà. L’uomo, e cioè i progettisti, gli esecutori, la committenza sempre meno illuminata, sono i veri artefici di questo innaturale (perché rapido) invecchiamento dell’architettura contemporanea.

      Paul Valery, come diceva Scarpa, ha scritto che l’architettura è nei particolari, ma, ahimè, questa virtuosa affermazione perde di significato il momento in cui arriviamo ai giorni nostri. I particolari costruttivi ben studiati e i particolari di altro ordine, rappresentano generalmente una perdita di tempo preziosissimo per gli attuali addetti ai lavori, siano essi progettisti, siano essi esecutori, per cui poco interessa a costoro la tenuta nel tempo di quanto hanno architettato ed eseguito.

       Non è dunque il nuovo che avanza, ma il pressappochismo che avanza; la ricerca paziente del caro Lecorbu è andata in soffitta, per cui diventa pateticamente inimmaginabile trascorrere giorni e giorni alla ricerca di soluzioni costruttive e formali giuste. Tutto il grande patrimonio del procedere per gradi, aumentando conseguentemente l’approfondimento, è scomparso quasi completamente dalla coscienza collettiva degli addetti ai lavori. Mutuando un’affermazione fatta da Baricco, non si va più in profondità, si surfeggia. Chi mi starà leggendo ha certamente presente il tipico impresario che tuona con supponenza contro gli architetti che gli fanno sprecare tempo “prezioso”. Il meccanismo ormai è ben consolidato e ben oliato e quando, come mi auguro caldamente, qualcuno vorrà nei secoli futuri scrivere la storia dell’architettura del novecento e degli inizi del XXI secolo, dedicherà in negativo molte pagine a questo periodo buio dell’architettura medesima contemporanea e ahimè cosiddetta anche moderna.

      Dopo aver individuato questa tredicesima latente costante dell’architettura contemporanea (uso il mio aggettivo) che indubbiamente è, al contrario delle altre, una caratterizzazione negativa dell’architettura moderna (uso sempre il termine zeviano, io userei l’aggettivo contemporaneo) sorge prepotentemente il problema del come progettare, tenendo conto delle sette invarianti zeviane e delle mie cinque, cercando contemporaneamente di non incappare nella tredicesima invariante “latente”, quella cioè che riguarda la deperibilità dell’architettura contemporanea.

      E qui si propone il campo sul quale intervenire. E’ banalmente ovvio ma bisogna intervenire sugli anelli deboli della filiera e cioè sui futuri architetti e sulla mentalità della committenza. Per quanto riguarda gli architetti è possibile intervenire all’interno delle strutture universitarie, per quello che riguarda la committenza l’intervento è molto più difficoltoso ed articolato e va rimandato in/ad altre sedi più acconce.

      Tralascio quindi la committenza, intesa sia come clienti che come esecutori, e passo tout court all’università, alle accademie, alle scuole di design e a tutte le altre organizzazioni culturali dedicate all’insegnamento e alla progettazione nel campo della forma e della funzione. In queste strutture, secondo me, è ancora possibile, ancorchè molto difficile, riprendere le fila di una cultura troncata, di un nuovo Bauhaus.

      Dopo aver individuato la latente invariante che si potrebbe aggiungere direttamente a quelle zeviane e alle mie, e cioè la deperibilità, mi sono accorto che fra i due insiemi di invarianti che ho dianzi esposto (le invarianti individuate da Bruno Zevi e quelle individuate da me) si è aperto un canale di comunicazione che permette un interfacciamento che certamente sarà utile nel prossimo futuro. Mi spiego meglio. Quest’interfacciamento, questa collaborazione fra i due sistemi di invarianti, le zeviane e le mie, dovrebbe rendere la “deperibilità” più diluita nel tempo, portando così i tempi di deperimento molto più vicini a quelli più “naturalmente” lenti della cosiddetta architettura classica. Come?

      Innanzi tutto dedicando propedeuticamente buona parte della didattica dell’architettura all’individuazione delle cinque invarianti da me individuate e alla conseguente ricerca del massimo di soluzioni possibili. Dal punto di vista della didattica, gli esempi che via via si accumuleranno nel database delle soluzioni formali, che sarà continuamente aggiornato, implementeranno con continuità un certo tipo di casistica che sarà di grande utilità per gli studenti. Contemporaneamente gli studenti studieranno come le mie cinque invarianti possano essere individuate, leggendone le soluzioni, anche quando l’architettura parlava latino e greco. I futuri architetti, dovranno quindi parlare architettura e, contemporaneamente, parlare “di” architettura.

      Aggredire questi due campi contemporaneamente non rappresenta assolutamente la formula della felicità, ma mette gli interessati di fronte a problemi reali, allo studio di interessanti soluzioni nel campo dell’architettura non contemporanea e a ipotesi di lavoro nel campo dell’architettura/progettazione contemporanea. Tutto ciò significherebbe ridare il giusto posto al rigore analitico e a quello propositivo, che negli ultimi decenni è stato sostituito da colpevolissime leggerezza e fiducie varie, leggerezze e fiducie riposte in errate concezioni delle creatività individuali degli studenti, creatività individuali, che, senza leggi, rigore e meccanismi di approccio, non fanno altro che riportare il tutto indietro nel tempo, avvicinandolo a una inesistente e dannosissima forma di presunte “ingenuità e freschezze” compositive, finte ingenuità e finte freschezze che hanno fatto più danni di una guerra.

      Se tutto ciò dovesse accadere, penso che il Bauhaus brutalmente troncato potrebbe riprendere il suo cammino, e che la frattura si potrebbe ricomporre per cui, dal punto di vista della didattica, il cerchio si chiuderebbe. E, sopra ogni cosa, la tredicesima invariante, cioè la rapida deperibilità dell’architettura moderna, assumerebbe tempi più corretti e più naturali svanendo quindi dolcemente nel “naturale” trascorrere del tempo dell’architettura stessa. L’architettura contemporanea, non ha assolutamente bisogno della eventuale tredicesima, cioè di quella invariante riguardante la deperibilità dei materiali.

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